Liu Bolin. The Invisible man


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Liu Bolin, Colosseo n°2, Roma, 2017Courtesy Boxart, Verona

Oltre 70 opere compongono la mostra esposta nell’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano a Roma, dal 2 marzo al 1 luglio e dedicata a Liu Bolin, l’artista di origine cinese e definito “l’uomo invisibile”, che ha raggiunto la fama internazionale come colui che ha fatto del camouflage il suo tratto distintivo. Rimanendo immobile come una scultura vivente, Bolin integra il suo corpo con il contesto alle sue spalle grazie a un accurato body-painting e infine si fa fotografare.

In mostra, sette cicli tematici ripercorrono la poetica dell’artista: dalle prime opere della serie Hiding in the City del 2005 fino ai giorni nostri, in un viaggio ideale tra la Cina, con i suoi celebri edifici, i suoi miti, le problematiche sociali e l’Italia. La mostra si snoda infatti dalle origini al “Grand Tour” di Liu Bolin dal 2008 ad oggi, racchiuso nel titolo Hiding in Italy, durante il quale l’artista si immerge nei luoghi simbolo dell’Italia, da Milano a Verona, da Venezia fino a Roma e alla Reggia di Caserta. Un viaggio che continua nel mondo con la sezione Hiding in the rest of the world, in cui l’artista si fa ritrarre a Londra, Parigi, New York, Nuova Delhi, Bangalore.

Nella prima sezione, Hiding in the City, siamo all’inizio dell’avventura artistica di Liu Bolin. È il 2005 e l’amministrazione di Pechino decide di abbattere il Suojia Village, un quartiere situato a nord est della città dove hanno trovato sede molti artisti con i loro studi. Tra questi c’è anche quello di Liu Bolin. L’accadimento lo colpisce a tal punto da indurlo a trovare una modalità artistica ed espressiva che riesca a restituire i suoi sentimenti. Si fa dunque dipingere come se facesse parte di quelle rovine, facendosi ritrarre immobile tra esse. Liu Bolin inizia così la messa a punto di un personalissimo linguaggio che tiene insieme performance, pittura, installazione e fotografia. Da qui Liu Bolin comincia un viaggio attraverso i luoghi tipici di Pechino e della Cina.

Nella seconda seziona, Hiding in Italy, si svolge il Grand Tour in Italia ed è la prima prova di Liu Bolin fuori dal suo paese, che assume lo stesso valore che questo viaggio ha avuto per gli artisti europei del passato. Dall’Arena alla Scala della Ragione di Verona; dal Duomo al contemporaneo Palazzo Lombardia, poi il Teatro alla Scala di Milano; dal Ponte di Rialto a Piazza San Marco di Venezia; dalla Villa dei Misteri al Tempio di Apollo di Pompei; dal Ponte Sant’Angelo alla Paolina della Galleria Borghese e al Colosseo di Roma; per finire con i grandiosi spazi della Reggia di Caserta.

La terza sezione è dedicata al tema Hiding in the rest of the world, con cui Liu Bolin intraprende il viaggio per le vie del mondo: da Londra a Parigi, ad Arles; poi New York, Nuova Delhi, Bangalore, capitale dello stato indiano meridionale di Karnataka.

La quarta sezione, Shelves, con la serie degli Scaffali, sin da Supermarket n°1 del 2009, dimostra l’interesse di Liu Bolin a non tralasciare nello sviluppo della propria conoscenza del mondo il fenomeno del consumismo che caratterizza cultura e società della nostra epoca.

La quinta sezione è Fade in Italy, ossia “Svanire” in Italia, divenendone parte: tra cibo, vino, cultura, design, e il mito della Ferrari, in cui Liu Bolin gioca con l’ovvio, con i luoghi comuni, ma anche con l’essenza di un luogo e di un popolo, facendosi parte di esso.
Nella sesta sezione, intitolata Cooperations, Liu Bolin si inserisce nel mondo della moda, prestando il suo linguaggio ad alcuni dei più importanti brand mondiali: da Valentino a Lanvin, da Jean Paul Gaultier ad Angela Missoni, fino a diventare protagonista di una delle campagne di comunicazione più note nel mondo per Moncler.

Infine, la settima sezione è dedicata ai Migrants, quella che rappresenta l’altra faccia della medaglia e del mondo, quella dove gli scaffali pieni, le macchine potenti, gli abiti e i tessuti più pregiati, non sono nemmeno un desiderio possibile, ma piuttosto il dato di fatto di una distanza incolmabile, di una frattura profondissima che attraversa il nostro tempo e che le immagini riescono a malapena a raccontare.

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