Juan Muñoz


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Realtà e ambiguità, essere e apparire. Tutto ciò che sta in bilico tra ciò che è e ciò che vorremmo che fosse, costituisce il leitmotiv del percorso artistico di Juan Muñoz (Madrid, 1953 – Santa Eulària des Riu, Ibiza, 2001), diventa il tema incalzante e stabilisce il linguaggio plastico, apparentemente (anche in questo senso) immediato, perché figurativo, ed invece cerebrale, in cui l’immagine è la corteccia, l’involucro che contiene ben altra essenza.

Lo spazio, nelle sue varie declinazioni, fisica, urbana, architettonica, concettuale, psicologica, intimistica e così via, si offre esplicitamente o implicitamente attraverso innumerevoli stimoli che inducono alla riflessione, dopo aver colpito l’emotività e lo stesso raccoglimento che si attua istintivamente varcando la soglia di un luogo sacro.

Juan Muñoz, Many Times, 1999

Sculture, installazioni, disegni, scritti, opere radiofoniche enunciano l’inequivocabile messaggio artistico, sociale, culturale di Juan Muñoz e ogni opera concentra totalmente l’attenzione dell’osservatore, impegnando fisicamente i sensi e spiritualmente il pensiero e l’emozione.

Camminare in mezzo alle sculture e sui pavimenti psichedelici, accompagnati da incessanti suoni e parole delle sue trasmissioni radiofoniche, spinge a relazionarsi dinamicamente con l’ambiente creato, le presenze, a volte stupefacenti e a volte inquietanti, ma sempre dentro un’atmosfera magica e misteriosa.

Tra le sue opere ci si aggira inconsapevolmente introdotti nel drammatico teatro della vita reale, della società attuale, dove si entra con la certezza di avventurarsi nel mondo dell’illusione e si esce con la mente colma di interrogativi esistenziali. In effetti, la prima illusione è quella di essere spettatori, mentre ci si accorge di essere osservati e le luci della ribalta vengono orientate verso ogni visitatore generando un teatro inverso. Infatti, per esempio, in “The Prompter” del 1988, il gobbo seminascosto suggerisce ad un palcoscenico sgombro sul quale è rimasto un minuscolo tamburo in lontananza; un invito all’ascolto, una memoria che sta sorgendo o svanendo nell’immensità del mare fatto di vuoto, laddove si viene proiettati perdendo il contatto col reale circostante. Stessa sensazione, suggerita da altrettanto minimalismo, si prova di fronte ad un unico interlocutore, che è un omino di bronzo seduto su un ripiano sospeso da terra e appoggiato ad una parete spoglia, la più lontana dall’ingresso. Si tratta dell’installazione “The Wasteland” del 1986, il cui titolo Muñoz l’ha preso in prestito dal poema di Eliot. L’entrata in scena dell’osservatore è assolutamente involontaria e obbligata, allorché il palcoscenico è tutto il suolo della stanza e si viene inglobati dall’opera e dal suo ambiente; qui le reazioni sono spontanee e la messa in scena diventa surreale e variabile suggerite dal luogo, dalle luci soffuse, dai suoni incessanti, l’atmosfera caratterizzata dai passaggi e dagli umori dei visitatori, che vanno dalla curiosità al timore.

Altri interrogativi, altre metafore, altre illusioni provengono da stimoli generati dai balconi vuoti dell’ “Hôtel Declercq” del 1986-2000 o, ancora più penetranti, dai due omini seduti l’uno di fronte all’altro dentro una scatola, in balìa di un destino oscillante, monotono per il suo movimento perpetuo e ripetitivo di andata e ritorno, sempre uguale, su una rotaia fissata su tre pareti di una stanza di “Living in a Shoe Box (For Diego)” del 1994.

L’inversione dei ruoli e la drammaticità del quotidiano permeano anche l’opera “Derailment” del 2000-2001. Siamo spettatori del deragliamento del mondo, poiché questo sta all’interno delle carrozze, al posto delle persone che guardano paesaggi e città dai finestrini del treno. Regolarmente percepibile è lo stato di permanenza dell’ambiguità interposta tra realtà e illusione, la bivalenza interpretativa dei soggetti, la provocazione per lo smascheramento dell’ipocrisia. Persino quando si è introdotti tra la folla delle dondolanti figure di “Conversation Piece” del 1994 o di “Many Times” del 1999, una popolazione orientale in resina grigia, di statura di poco inferiore a quella naturale, composta in gruppi di quattro o cinque elementi per un totale di un centinaio di statue. La solitudine pare trovare qui la sua fine ed invece coglie immediatamente la consapevolezza di essere esclusi dalle varie conversazioni in atto, anzi ci si sente oggetto dei discorsi e indagati fino al disagio. In queste “persone” colpisce l’essenza pirandelliana di “uno, nessuno, centomila”, ossia di individui che sono nell’apparenza ognuno diverso da tutti gli altri, ma nella sostanza denunciano un inesorabile appiattimento sociale. In effetti, tutte le teste di queste statue sono ottenute da un unico calco che Muñoz aveva ricavato da un busto antico in ceramica, di fattezze asiatiche, trovato e acquistato in un hôtel. Ecco, quindi, sorrisi innaturali, sguardi misteriosi tra persone, anche abbigliate allo stesso modo e distinte tra loro unicamente dagli atteggiamenti e dalle posture, che sostengono una comunicazione fatta di tensioni. È un confronto perpetuo tra identità e anonimato, normalità e alienazione, isolamento e relazione interpersonale, presenza e assenza, introspezione e interazione con lo spazio circostante assieme ad una nuova evocazione pirandelliana delle “Maschere nude”.

Doppia interpretazione, doppio senso, drammaticità o ammirazione per gli uomini di “Hanging Figure” del 2001 che, guardando attentamente, risultano essere trapezisti e che il primo impatto li propone meglio come vittime che come eroi. L’immagine che si prospetta delle figure sospese con una corda e pendenti dal soffitto, rimandano più spontaneamente all’impiccato di Goya piuttosto che al trapezista di Degas.

Costruzioni architettoniche di interni ed esterni, facciate, balconi, balaustre, pavimenti, costituiscono una sorta di limite dai risvolti drammatici di spazio e tempo, in cui l’elemento principale è comunque la solitudine individuale, nella e nonostante la società, in cui l’inquietudine viene alimentata da luci e ombre sinistre, dal mistero proposto e mai svelato di ambienti sconosciuti che permettono la piena libertà di interpretazione e di emotività. Sempre con uno stretto e indissolubile collegamento con la diversità del reale.

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