Arte ed evento, da Anversa a Gentileschi, via Cheshire Riflessioni sul moderno nella storia dell’arte dopo il Rinascimento


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Lee Chesire è senior editor e copywriter alla Tate di Londra, nonché autore di London Paint (sulla pittura nella capitale britannica dal Seicento a oggi) e di Key Moments in Art (tradotto di recente in Italiano da 24 Ore cultura con il titolo di 50 momenti che cambiarono l’arte). In quest’ultimo libro c’è un capitolo intitolato Prima età moderna che, fra i tanti spunti offerti, induce a una profonda riflessione tanto sui rapporti tra arte ed evento quanto sul moderno nella storia dell’arte subito dopo il Rinascimento.

Sono infatti in molti a usare l’espressione ‘arte moderna’ a proposito di una periodizzazione estesissima, corrispondente grosso modo a quella concepita dagli storici che situano la scoperta dell’America (1492) e la rivoluzione francese (1789) quali poli cronologici estremi per un cambiamento sostanzioso della civiltà occidentale: in quei tre secoli di viaggi e invenzioni, ma anche di guerre ed epidemie a sconvolgere più volte l’assetto sia di un’Europa disunita sia di conseguenza del mondo intero (ad eccezione in parte dell’estremo Oriente) corrisponde un percorso artistico che, in ambito figurativo, va dall’inizio del manierismo alla fine del rococò, benché si possa disquisire di Rinascimento ancora per il primo Cinquecento, mentre il Neoclassico bussa già alle porte a metà del XVIII secolo.

Michelangelo Merisi (Caravaggio), Natura morta con frutta, 1606

Tutto questo serve a chiarire l’impossibilità di porre netti confini al progresso creativo di ogni disciplina estetica, così come, in fondo, anche la Storia non è soltanto inquadrabile entro i limiti di una serie di eventi oggettivamente databili. In tal senso un’idea di moderno – vicino, ma in contrasto, al passato del Medioevo carico di superstizioni, pregiudizi, falsità, imbarbarimenti – esplode già all’inizio del Quattrocento con la ri-scoperta della prospettiva e con un ritorno del realismo in ciò che viene chiamata ‘arte rinascimentale’, da rapportarsi all’umanesimo letterario (risalente persino alla letteratura trecentesca) e a importanti avvenimenti come l’invenzione della stampa o la riforma luterana, che, nella storia dell’Occidente, aprono al moderno, per l’appunto.

Lo stesso ragionamento, ma in negativo, va fatto per la fine del moderno e l’inizio del contemporaneo, che gli storici dell’arte posticipano di circa un secolo rispetto alla rivoluzione francese, facendolo coincidere con l’impressionismo o con le avanguardie a seconda dei giudizi più o meno oltranzisti. Del resto giacobini e girondini adottano quale estetica il neoclassico che è un ritorno alle origini greco-romane (attraverso il Rinascimento), dal quale si svilupperà, per contrasto (o rifiuto) un’arte romantica che, in pittura-scultura-architettura, produrrà quasi solo revival medievaleggiante (nelle tematiche) e nessuna effettiva novità sul piano stilistico, se non attraverso qualche caso isolato (Turner, Millais, Courbet, in parte Delacroix) talvolta premonitore della svolta impressionista tardottocentesca, come accade pure con la scuola macchiaiola toscana, di cui, nel mondo, a parte l’Italia, ancora si misconosce un ruolo attivo nell’anticipare, fondare, sviluppare il moderno negli stessi anni di Manet, Renoir, Monet, Degas, Sisley.

Ma cos’è in fondo il moderno, artisticamente ragionando? Resta anzitutto un’espressione polivalente, talvolta ambigua, perché troppo estesa o al contrario elitariamente restrittiva. Moderno, per la gente comune, risulta oggi sinonimo di arte contemporanea (con o senza impressionisti), riferito via via a tutto il Novecento o alle sole avanguardie (vecchie e nuove) o all’arte degli ultimissimi tempi. Modernismo diventa anche indicatore di alcuni brevi periodi (anni Venti e Trenta del XX secolo) o specifiche correnti figurative, musicali, architettoniche, letterarie.

Lasciando però agli storici e ai filologi l’eventualità di definire una volta per tutte l’essenza del moderno, vale la pena ora notare come una serie di eventi – fra l’altro brillantemente analizzati proprio da Cheshire in 50 momenti… – qualifichino l’arte in Occidente, non a caso a partire dunque dalla fine del Rinascimento nordeuropeo, che avviene sotto pessimi auspici: il giovane Edoardo VIII, durante l’incoronazione a re d’Inghilterra, ancora bambino, il 10 febbraio 1547, chiede di terminare l’opera ‘riformista’ del padre Enrico VIII, il quale, a sua volta, in fatto di arte, inizia a rimuovere le immagini sacre da ogni Chiesa inglese, nell’ottica delle indicazioni dei cosiddetti protestanti.

L’atteggiamento – profondamente antimoderno nella teoria e nei fatti – ispira quella che va vista come ultima iconoclastia religiosa in Europa, culminante ad Anversa il 20 agosto 1566, con la folla inferocita che distrugge statue, dipinti, oggetti, arredi della locale Cattedrale di Nostra Signora nella peggiore Beeldenstorm (tempesta delle immagini) moderna, a cui risponderà, circa mezzo secolo, dopo il grande pittore Peter Paul Rubens con L’innalzamento della Croce e soprattutto La deposizione della croce che il 7 settembre 1611 viene collocata nella stessa cattedrale anversiana, a dimostrazione della riconquistata lealtà alla fede cattolica.

In effetti anche il Papa, già tre anni prima dell’iconoclastia fiamminga, vuole tenere l’arte sotto controllo, ma in modo diverso, sia pur in un analogo comportamento antimoderno, lasciandola prosperare nello sfarzo, nella magniloquenza, nel dispiegamento di mezzi tecnici, però controllandone severamente i contenuti. A conclusione del Concilio di Trento, il 4 dicembre 1563, quale risposta al protestantesimo, la pittura cattolica dev’essere approvata dei vescovi e attenersi a regole ferree, soprattutto nella rappresentazione dell’essere umano. Accade quindi che ai personaggi ignudi dipinti da Michelangelo Buonarroti ne Il giudizio universale vengano coperte le ‘vergogne’ e che quelli ritratti da Paolo Veronese in Convito in casa Levi siano oggetto di reprimenda dei soloni  della Santa Inquisizione: il tribunale religioso infatti convoca il pittore a Venezia, il 18 luglio 1573, intimandogli di cancellare i nani, i buffoni e i due soldati tedeschi (aggiunte per così dire ‘moderne’) nell’entourage attorno al tavolo de L’ultima cena di Cristo originaria; l’artista riesce tuttavia ad aggirare l’ostacolo e dunque la censura, cambiando titolo all’enorme tela, che diventa quindi un soggetto evangelico minore, senza più destare le ire negli alti prelati.

D’altronde non c’è che vietare una cosa per far sì che molti la desiderino e quindi, mezzo secolo dopo la Controriforma, s’aggira per Roma un pittore davvero moderno ante litteram, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, tanto geniale quanto odiato dal clero, poiché usa mendicanti e prostitute da modelli per soggetti religiosi; ma Caravaggio, per ragioni extra-artistiche, sale alle cronache dell’epoca il 28 maggio 1606 quando, durante una rissa, ferisce a morte il giovane Ranuccio Tomassoni in circostanze misteriose: è il primo caso di artista maledetto, proprio in senso moderno, fra i pochissimi a risultare un assassino, dato che il maudit, nelle arti, da allora a oggi, si manifesta piuttosto attraverso l’alcol, il sesso, le droghe, l’illegalità.

Caravaggio ha un’influenza enorme sulla coeva pittura (prolungatasi per circa un secolo), incantando anche quella che può ritenersi la prima donna artista nel moderno, Artemisia Gentileschi, la quale pur figlia di un noto pittore (Orazio Gentileschi) subisce sia violenze sessuali sia assurdi pregiudizi nel mondo artistico-intellettuale, riuscendo però, alla fine, grazie al talento, a sconfiggere il maschilismo e, nel 1610, a farsi addirittura eleggere nella rinomatissima Accademia delle Arti del Disegno a Firenze, prima e, per molti anni, unica donna a riuscirci.

Il moderno di cui si parla, dunque, tra il 1548 e il 1610, appare qualcosa di lontano o diverso dal mondo attuale, ma a ben vedere l’antimoderno che, in fondo, condiziona i destini di Anversa, di Veronese, di Caravaggio e della Gentileschi, può essere purtroppo intrecciato anche in molti atteggiamenti odierni, tra apriorismi e pregiudizi. In un prossimo articolo si vedrà come, nella dialettica fra arte ed evento, anche i contemporanei si accaniscono contro presunte esagerazioni inerenti protagonisti e opere di estetiche ritenute di volta in volta pericolose, inutili, trasgressive, senza nemmeno l’accortezza di pensare che prima o poi il Giudizio della Storia possa ribaltare tali antipatie maligne dettate in fondo dall’invidia, dalla paura, dall’ignoranza, dalla repressione.

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