Giacomo Soffiantino


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Inutile cercare una definizione che si adegui e corrisponda al linguaggio di Giacomo Soffiantino (Torino, 1929 – 2013): non esiste e persino l’invenzione di un neologismo su misura risulterebbe immediatamente fuori registro, insufficiente, impreciso, tanto è complesso il suo mondo umano e spirituale. Tanto da farlo risultare semplice, in una sintesi alchemica riservata a pochi, ai quali simile condizione è spesso scomoda, sta stretta e può determinare una sorta di disagio quotidiano. Vita naturale, pensiero, arte sono la sua trilogia personale dalla quale gli è sempre stato impossibile discostarsi, per scelta e volontà consapevoli. Così da sempre, con la stessa caparbia coerenza verso se stesso e la sua professione, allergico agli incasellamenti e alle definizioni, attento osservatore e critico obiettivo, lirico e sensibile, aperto ma incorruttibile.

Giacomo Soffiantino, Tsunami 1, 2008, olio su tela

Per lui è sempre stato importante mantenere la propria libertà e condurre con serietà ricerche personali, in particolare sui misteri della natura, della luce, del tempo, da cui proviene ogni tipo di informazione; soprattutto il mistero della vita, con tutto ciò che ad essa è legato. Se pur senza mai distogliere lo sguardo dalla società e dall’evoluzione della storia e della cultura, tale fascinazione è diventata per il Maestro la radice di tutta la ricerca pittorica.

In fondo, un obiettivo è raggiunto; uno degli scopi principali del suo fare arte, che consiste nel “donare” al prossimo il suo sentimento. Di più. Il suo linguaggio, la sua espressione costituiscono la mediazione tra l’origine e la fruizione; due mondi paralleli con facoltà di esercitare la libertà assoluta di godimento, di interpretazione.

Si intuisce, in questa ottica, la non figuratività e la non formalità, la non concretezza e la non astrazione, quella che egli chiamava “aformale” e che tuttavia non è amorfismo. Sembra più opportuno, in simile contesto, privilegiare la soggettività rispetto l’assoluto e considerare l’essenza sopra l’apparenza, il contenuto più del contenitore, l’anima e non l’involucro delle cose.

Mistero, in binomia con magia, è il soggetto incorporeo e, nello stesso tempo, polimorfo, che si autodetermina in ognuna delle opere di Giacomo Soffiantino, fin dagli inizi. Detto semplicemente, la conseguenza è ovvia perché si genera curiosità, irresistibile richiamo all’esplorazione e alla scoperta, con quel lieve, riconosciuto o meno, senso di paura o inquietudine verso l’ignoto.

Come un filo di Arianna, le suggestioni, le forme, i lineamenti di cose familiari offrono sicurezza, mantengono il legame col mondo conosciuto e, contemporaneamente, conducono lontano, alla ricerca di risposte ai quesiti eterni dell’uomo, oppure, semplicemente, offrono una possibilità di godimento sereno di un’immagine, a libera scelta di percorso. L’artista stesso, in quanto uomo, non ha mai rinnegato quei sentimenti che possono confondersi con le debolezze, ma quando dipingeva intendeva mettere in evidenza la bellezza delle creature viventi, degli oggetti, dei fossili che appartengono ad entrambe e a nessuna delle due categorie, perché della vita che possedettero ne conservano la memoria e, in tal modo inattaccabili dal tempo, sfidano le epoche, i secoli, i millenni portando con sé i segreti e i misteri delle evoluzioni. L’origine della considerazione di simili soggetti è quella di porre l’attenzione sulla bellezza e la perfezione dell’opera della natura. Sembra, però, che una sorta di smaliziamento dell’uomo contemporaneo “evoluto” predisponga differentemente il pensiero, che le paure e le ansie siano ingigantite dopo l’esperienza della facoltà di riflettere, la quale ha generato condizionamenti emotivi e pregiudizi, simili alla consapevolezza derivata dal peccato originale.

La ricerca del bello assoluto è ciò che interessava veramente a Giacomo Soffiantino e tutto il suo lavoro ruota intorno a questo valore; da qui la complessità e la semplicità si sono fusi in un’unica sostanza, ancora capace di sorprendere.

Arte, per Soffiantino, significava anche fedeltà ai metodi, ai mezzi, ai materiali tradizionali. La pittura è pittura, ha le sue regole, bisogna riconoscerle e vanno rispettate; come per la poesia, lo stesso per la musica. Il risultato, il prodotto d’arte, deve saper dare quel qualcosa in più, ancora una volta semplice e complesso, perché crea per tutti una disponibilità ai piaceri dello spirito, il compiacimento della fruizione in un’unica immagine immediata nella quale sono confluiti distillati e sintesi degli spunti di varia natura. Questa è l’autenticità concettuale; quella che ha bisogno, e ne è consapevole, della cultura, della conoscenza, della capacità di raziocinio. Quella che diventa espressione spontanea, naturale, tanto da far reagire Soffiantino, a fronte di dotte elucubrazioni sul suo lavoro, con una ideale alzata di spalle e un candido “io, voglio solo dipingere”. L’ha sempre detto, e fatto, anche quando suo papà sognava per lui una professione diversa e sognava per lui la professione medica.

L’idea fondante di Soffiantino, era quella di concedere la totale libertà all’osservatore, per cui colui che è naturalmente pessimista troverà il suo ambiente consono, mentre chi, al contrario, è ottimista vi vedrà una ricerca di verità diversa, che guarda alla vita, alla bellezza, all’universo con tutte le sue ricchezze esperite o sconosciute.

E si capisce che ciò non è una fantasia solo osservando il quadro con cognizione, la sua architettura, la sua progettazione, la sua strutturazione, il suo calore cromatico, la lirica compositiva, l’equilibrio degli spazi e dei contenuti, i significati proposti, le suggestioni accennate. Diventa, così, secondario e decisamente individuale il lasciarsi ricondurre ad altre fonti o citazioni da alcuni elementi.

Gli ossi di seppia non sono una dichiarazione d’amore a Montale, se pure questi fosse amato da Soffiantino. Sono forme che la natura ha modellato fantastiche, con lineamenti dolci e superfici levigate, colore indefinito, più lattiginoso che candido; anch’essi semplici alla vista e complessi nella sostanza, aderenti al suo pensiero artistico e parti importanti in alcune opere.

Il teschio, umano o animale, anziché far pensare alla fine, alla morte, alla conclusione della vita terrena, può essere intanto artisticamente studio dell’architettura anatomica, di forme concave e convesse, di pieni e di vuoti, di superfici e profondità. Poi è anche essenza, simbolo dell’intelligenza e della conoscenza, shakespeariana e contemporanea, ossia dell’uomo di tutti i tempi con la forza della storia e della cultura. E anche presenza/assenza.

I grovigli, i nidi, gli intrichi segnici, una grafia complessa, simili al cervello, labirintico, inestricabile come i misteri della natura e belli come solo in essa si trovano. Il caos prima del big bang che accorpa ogni potenzialità del divenire ed è la traccia di un percorso da dipanare, comune o individuale, esplicito o interiore.

La vetrata e lo specchio, opere dell’uomo e non più della natura, hanno valenze simili e opposte nella loro materia trasparente e riflettente. La prima separa l’interno dall’esterno, ma, circoscrivendo il campo visivo, convoglia lo sguardo verso un al di là più nitido e lo guida in una osservazione meno dispersiva, più concentrata e attenta. Invece, lo specchio riflette specularmente, separa dall’ambiente che sta di fronte mentre mostra ciò che sta dietro l’osservatore e, implicitamente, dentro se stessi e alle proprie spalle.

Altre architetture naturali fantastiche, Soffiantino le vedeva e le apprezzava nella conchiglia e nelle nervature delle foglie; ne riconosceva la perfezione matematica della costruzione, la loro inimitabilità e bellezza in cui si ripete la complessità dell’essenza tradotta nella semplicità della sostanza, ossia del visibile. Anch’esse sono simboli di vita, di nascita, di crescita. Nella valva è custodito il segreto della vita, della libertà e nelle nervature lo scorrimento e la distribuzione della linfa, dell’energia, del nutrimento fisico e spirituale a cui tutti possono, se vogliono, attingere.

E poi, acqua, terra, fuoco, ossia sorgente, madre, energia, altri spunti di riflessione sull’esistenza e sul pericolo di distruzione quando questi stessi elementi, che per la loro destinazione naturale danno, possono riportare nel caos se, maltrattati, si interrompe l’equilibrio.

In tanta complessità strutturale dei dipinti di Soffiantino, la figura umana è piuttosto sfuggente. A volte è più esplicita nelle forme, anche se non predominante; altre volte è inserita nei grovigli, intuibile nelle formazioni complicate e i suoi lineamenti sono ben mimetizzati, contenuti e appartenenti alla sezione che è ancora allo stato informe.

Segno, forma, organizzazione della superficie pittorica, la valorizzazione dei dettagli e la visione d’insieme, appaiono di primo acchito come se fossero il pensiero principale del Maestro torinese, ma il colore non è secondario nella progettazione e realizzazione dell’opera. Pigmenti, cromie, materia, la loro scelta, l’elaborazione, l’uso, il trattamento costituiscono l’anima della composizione, la vita della luce. Che siano neri, bianchi, bruni, azzurri o rossi, non sono mai tonalità squillanti; sono sempre ovattate e morbide, calde, mai piene e piatte, ma sfumate, velate, profonde, solcate da segni e graffi. Regolarmente sempre intrise di mistero.

In ogni occasione, Soffiantino guardava e riproponeva con la lente di ingrandimento, se non addirittura al microscopio, per arrivare al cuore del suo cosiddetto “soggetto” dell’occasione. All’ordine del suo studio, dove egli stesso disponeva gli oggetti a suo piacimento e ne stabiliva gli spazi, opponeva la pace del bosco dove tutto è lasciato al caso ma spinge oltre il mistero, fino ad inoltrarsi nella memoria, nell’immaginazione, nelle sensazioni lasciate dagli avvenimenti ed approdare, per esempio, all’opera “Tsunami” (2008). Qui i grovigli sono cromatici oltre che segnici e sono in atto potenti moti ondosi o vortici; le cose si scontrano, si uniscono, riformano il caos originale lasciando delle aree libere, mondi nuovi di speranze, zone buie ed altre totalmente luminose. Un momento che da drammatico diventa di trasformazione, come ogni morte preannuncia la rinascita, nell’avvicendamento delle stagioni e lo scorrere del tempo. Altro è “Tavolozza e conchiglie” (2008), dove la suddivisione dell’area in campi geometrici e la collocazione degli elementi è organizzata con precisione. L’azione di rivolgimento è compiuta e la stabilità è raggiunta. Regna il silenzio e l’invito alla riflessione in un totale senso di pace e serenità per trovare se stessi.

Più enigmatico e complesso è “Analogie” (2005) dove sono suggerite specularità e specchiamenti, oggettivazioni e soggettivazioni, dati e assenze, costruzioni e annullamenti, cioè un mondo nuovo e disponibile per molte individuali modellazioni mentali, ideali, emotive. Quante emozioni scaturiscono da “La sorgente nel bosco” (2006), immersa in una folta vegetazione della quale si percepiscono i sommovimenti più delle forme, i suoni più dei colori e dove la luce penetra approfittando delle aperture forzate dall’aria che scosta i rami e le foglie e fa brillare lo zampillo dalle origini misteriose. C’è un’opera in particolare che enuncia una profonda gioia partecipativa del mondo, in uno svolgimento condotto sulla melodia del silenzio e della contemplazione. È un componimento in tre atti, iniziato nel 1987 col primo capitolo che aveva suggerito il titolo “Realtà emotive inconsce”. Nello svolgimento, le emozioni si sono fatte più consapevoli, sull’onda dei mutamenti della luce, dei suoi effetti, delle sue azioni su tutto il creato; così è subentrato un nuovo spunto verbale, una guida alla comprensione delle successioni luminose e si è aggiunto una specifica al titolo “Nero, verde e luci rosa”. La conclusione è avvenuta nel 2003 ed è esplosa in un cantico di gioia nell’indicazione “Il grande fiore”. È un poema con svolgimento uniforme, senza età e le suggestioni dei titoli si ritrovano nelle cromie, nei segni, nel movimento dell’immagine. La luce ha origine dalla base, dove l’assolutezza del bianco condiziona l’individuazione di forme, ma non acceca; lo sguardo è guidato a percorrere le evoluzioni dei segni sanguigni che profilano due mani in atteggiamenti dolci al punto di incontrarsi. Da lì pare scaturire tutta la parte superiore dove la sovrapposizione di colori, le sfumature, le velature lasciano e non lasciano vedere il fermento della vita. In questo spazio si muovono numerosi elementi, vivi o fossili, conchiglie, spirali, foglie, scacchiere e due punti di luce rosa, appunto, portano in primo piano dei particolari, quasi come un suggerimento per la lettura dell’opera. In alto, un fogliame cullato dalla brezza, inventa coreografie fantastiche, anima ritmi e movimenti che confluiscono in una nuova formazione: “Il grande fiore”, omaggio alla vita e alla gioia di vivere.

Nei dipinti più recenti, le predominanti cromatiche giocano sulle variazioni armoniche e tonali di bianchi, bruni, neri, con alcuni inserimenti scattanti che, proporzionalmente all’area totale dell’opera, sono minuscoli o filiformi, come contrappunti, lampi, piccoli squarci. Ma nelle monocromie, nelle campiture, nelle dolci variabili si esplica e si perpetua il mondo, l’esperienza, il risultato di tanti anni di ricerca di Giacomo Soffiantino. Da queste si evince che tutto va guardato e visto con attenzione; che sempre bisogna saper trarre il bello da ogni cosa, serenamente, senza presunzioni. Quella luce e quella prospettiva che molti hanno cercato nelle sue opere, sono lì, con le loro caratteristiche naturali, con i loro campi d’azione e i loro effetti.

Essere artisti, per Soffiantino, significava innanzi tutto saper osservare, con gli occhi, con la mente, col cuore; saper vedere in profondità; distinguere i dettagli. È questo, assieme alla padronanza della tecnica, che per oltre quarant’anni ha insegnato a diverse generazioni di giovani ed è questo che con le sue opere suggerisce, tutt’oggi, ad ogni persona. Egli, oltre a saper vedere tutto ciò, sapeva anche come riproporre con maestria, lirica, armonia, dolcezza in immagini magnetiche e mai scioccanti, immediatamente fruibili, se si vuole, risvegliando e mettendo in azione il gusto estetico e la predisposizione sopita di godere del bello prima ancora di decifrarne il contenuto.

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