La Biennale 2019 vivrà “tempi interessanti”


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Ralph Rugoff (per gentile concessione della Biennale)

Messa in archivio l’edizione della Biennale di Architettura “Freespace”, a Venezia è tempo di pensare a quella di Arte che aprirà i battenti l’11 maggio e li chiuderà il 24 novembre. “May You Live In Interesting Times”, questo il titolo scelto dal curatore Ralph Rugoff, sarà l’Esposizione numero 58, preceduta da “Viva Arte Viva” del 2017 in cui Christine Macel aveva dato libero sfogo all’estro degli artisti, ponendoli al centro della mostra principale. Ne era venuta fuori un esperienza piuttosto interessante, forse la più interessante degli ultimi anni, dove l’aspetto antologico e quello critico avevano raggiunto il giusto equilibrio di forma e sostanza.

Premesso che vige il più stretto riserbo su chi esporrà negli spazi dei Giardini e dell’Arsenale (oltre che in altri luoghi della città lagunare, coinvolta nella sua interezza dal 1993, anno della rivoluzione di Achille Bonito Oliva), qualche anticipazione sui contenuti e sulle linee guida è stata data, già a partire dalla nomina ufficiale del curatore. Rugoff dal 2006 è Direttore della Hayward Gallery di Londra che dal 1968, cioè dalla sua apertura, è considerata fra le gallerie d’arte pubbliche più importanti del Regno Unito. Rugoff stesso lì è stato responsabile di mostre quali “The Painting of Modern Life” (2007), “Psycho Buildings” (2008) e “The Infinite Mix”(2016).

Tornando a “May You Live In Interesting Times”, per capire il suo significato e il contributo che porterà alla prossima Biennale, occorre iniziare a mettere a nudo il titolo, epurandolo di ogni fraintendimento. La frase in questione risale a un discorso della fine degli anni Trenta del secolo scorso, pronunciato dal parlamentare britannico Sir Austen Chamberlain il quale invocò un antico anatema cinese di cui era venuto a conoscenza grazie a un diplomatico suo connazionale di stanza in Asia, che curiosamente recitava: «Che tu possa vivere in tempi interessanti».

Se dal punto di vista storico è stata verificata l’inesistenza del suddetto anatema, frutto probabilmente di un’errata traduzione o di qualche escamotage narrativo, esso, come spesso succede, è entrato nell’uso comune del linguaggio scritto e parlato, al pari del “verrà un giorno” di manzoniana memoria. Tuttavia il punto che ci preme sottolineare non è questo, ma che la storiella non avvalorata dalle fonti, sia, nel nostro contesto, cioè della Biennale e più in generale del momento attuale, di un’attualità sconcertante.

I “tempi interessanti” che Rugoff indica sono infatti quelli della crisi che mina il dibattito politico, economico, sociale e anche artistico. In sostanza riassumono la perdita di punti di riferimento, la cui conseguenza è di farci sentire come delle schegge impazzite all’interno di un sistema governato dal caos. Ecco allora il paradosso che muoverà la Biennale 2019, generata da un falso storico né più né meno delle tante fake news che si leggono quotidianamente o dei registri allarmanti veicolati dai mass media di ogni genere e tipo.

Circoscrivendo il discorso all’arte, «“May You Live In Interesting Times” nasce dalla convinzione che l’arte interessante crea forme con un carattere e una definizione particolari, che ci fanno interrogare su come definiamo i nostri confini culturali – spiega Rugoff –. Un’intelligente attività artistica richiede la creazione di forme che mettano in risalto ciò che le forme stesse nascondono e le funzioni alle quali ottemperano. La Mostra metterà l’accento sull’arte che sta tra le categorie, e che mette in discussione le ragioni del nostro pensare per categorie».

In pratica, ma si tratta solo di un’anteprima per ora astratta, la 58ma Esposizione Internazionale d’Arte non avrà un tema di per sé, ma metterà in evidenza un approccio generale al fare arte e una visione della funzione sociale dell’arte che include sia il piacere che il pensiero critico. Con questi presupposti Rugoff, sul solco lasciato da chi è venuto prima di lui, vale a dire Christine Macel, si nasconde dietro le quinte (non l’ha digerita Renato Barilli che reclama il ritorno degli storici e critici dell’arte sullo scranno della Biennale); egli è pur sempre il regista che dirige un cast scelto da lui, ma lascia che gli interpreti si esprimano come meglio credono, al massimo delle loro potenzialità, perché sono loro gli unici capaci di aprire a una nuova visione del mondo che, non dimentichiamolo, non è mai univoca, bensì eterogenea e frammentaria, un fardello ereditato dal postmoderno.

L’arte non può risolvere i problemi mastodontici della società contemporanea come ad esempio i nazionalismi, i sovranismi e i flussi migratori, ma può fungere da lente di ingrandimento che ci faccia notare meglio i particolari e le sfumature, così da stimolare non solo il lato estetico (pur importante), ma anche quello critico, inteso come capacità di giudizio autonoma. Un’arma di difesa che ci faccia aprire gli occhi davanti ai soprusi, una barricata estrema contro l’omologazione e l’appiattimento.

A essere coinvolto in questo processo ci sarà il pubblico che interagirà, afferma Rugoff, nel modo più ludico possibile. Perciò l’arte infine come modello relazionale: «in questa luce, la Mostra si proporrà di sottolineare l’idea che il significato delle opere d’arte non risiede tanto negli oggetti quanto nelle conversazioni – prima fra l’artista e l’opera d’arte, poi fra l’opera d’arte e il pubblico, e poi fra pubblici diversi». Lo scopo finale, sul quale ci sarebbe da dibattere (bisogna però attendere di vedere il risultato), è che «ciò che più conta in una mostra non è quello che viene esposto – sono ancora parole di Rugoff –, ma come il pubblico possa poi servirsi dell’esperienza della mostra per guardare alla realtà quotidiana da punti di vista più ampi e con nuove energie».

Insomma, anche questa, come ogni Biennale che si rispetti, è pronta a fare discutere e ad aprire i consueti dibattiti tra chi ne tesserà le lodi sperticate e chi la stroncherà senza tanti mezzi termini. Ai curiosi non resta che aspettare qualche mese, dopodiché l’arcano verrà svelato. Su una cosa siamo d’accordo a priori con Ralph Rugoff: che «una mostra dovrebbe aprire gli occhi delle persone a modi inesplorati di essere al mondo, cambiando così la loro visione di quel mondo».

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