Piergiorgio Colombara. Neroro


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“Neroro” è il titolo della mostra personale di Piergiorgio Colombara (Genova, 1948), aperta al pubblico fino al 5 febbraio prossimo a Villa Croce di Genova, realizzata a cura di Giorgia Ligasacchi.

Il titolo è legato al ciclo di dipinti inediti, acrilici su tela, tutti di grande formato, realizzati dall’artista tra il 2017 e 2021. In mostra ci sono pure altri quadri (tra cui lo splendido Cantoria, acrilico, ottone e tempera su tela, 1988) che di Colombara, noto soprattutto come scultore, fanno conoscere un aspetto della sua ricerca, avviata fin dalla fine degli anni settanta. Emblematica del reciproco transito tra pittura e scultura sono due opere del 2017, un dipinto e una scultura, che recano lo stesso titolo: Inpunta. Non mancano del resto, in questa mostra, alcune delle sculture che hanno segnato l’affermazione dell’artista in ambito nazionale e internazionale: tra le altre, Suononous, ottone e rame, 1985; Mulino, ferro, rame e ottone, 1992; Lacrime di vetro, ottone e vetro soffiato, 1997 (collezione del Museo di Villa Croce); L’audace carena, bronzo, 2007; Culla, bronzo, 2014; numerose opere che documentano l’inesausta esplorazione di Colombara nell’utilizzo di vari materiali, compresi la terracotta e il ferro.

Piergiorgio Colombara, Neroro, 2017, acrilico su tela, cm150x250

Le opere di Colombara ci fanno immergere in un’esperienza, visiva e sensoriale, che potremmo definire del limite, della frontiera, dell’ambigua soglia tra mondi e situazioni di solito ritenuti alternativi. I suoi lavori sono caratterizzati da un’atmosfera che non è ascrivibile né a una qualche reminiscenza diretta del reale, né a esiti artistici del passato. Si respira, nell’opera di Colombara, un senso di leggerezza, di sospensione, di fragilità e di trasparenza, di tensione a cogliere e dare forma al vuoto e all’incerto confine tra suono e silenzio, qualcosa che ci fa pensare alla levità cara a Italo Calvino, che citava Paul Valéry: “occorre essere leggeri come l’uccello in volo e non come la piuma”. I suoi lavori si sottraggono all’attribuzione a un tempo definito nel percorso dell’umana civiltà e dell’evoluzione dell’espressione artistica: scorrono davanti a noi schegge di qualcosa che già abbiamo acquisito, anche se spesso questi lacerti sono tra di loro combinati, nell’operazione di vero e proprio montaggio compiuto dall’artista, in maniera non direttamente conseguente a una logica lineare che abbia introiettato le leggi della possibile evoluzione di un oggetto.

L’artista ricorre, nella sua officina creativa, all’uso combinato di vari materiali (ottone, rame, piombo, alluminio, vetro soffiato, cera, ferro, bronzo, ceramica, frammenti di specchio, corde, cartapesta, riporti fotografici) e a inserimenti di lacerti di antichi manufatti, frammenti di oggetti che, appartenenti alla storia dell’esperienza umana, hanno poi fatto naufragio o sono fino a noi giunti senza esserne del tutto travolti o sfigurati. Colombara fa convivere nel corpo di una sua scultura materiali che vengono comunemente classificati come opposti e alternativi, in ragione delle loro caratteristiche relative alla malleabilità, alla solidità; ciò accentua ulteriormente la nostra percezione di qualcosa che è venuto a sovvertire le regole del farsi delle cose, provocando una sensazione di vertigine e di straniamento. I suoi lavori sono l’esito combinato di due diverse tensioni, l’una governata dalla visione progettuale, l’altra dall’irruzione di un vento di libertà che spira durante il suo costituirsi in opera.

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