Piero Manzoni. Non solo “scatolette”


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Piero Manzoni, nella sua breve carriera artistica, ha fatto molto , anche se, per l’uomo comune, il pittore milanese (1933-1963) resterà, forse per sempre, noto per le cosiddette ‘scatolette’ – titolo ufficiale Merda d’artista – che restano un’indubbia geniale intuizione (e concretizzazione) sull’arte mercificata e sul suo duplice ruolo di mero consumo e di bieca industria a cui viene costretta non solo all’epoca – le 90 ‘scatolette’ con le feci manzoniane datano 1961 – ma già molto prima. Manzoni con un gesto trasgressivo – un picco scandalistico rispetto a un prima e un dopo della sua arte – sembra prefigurare di circa un ventennio il destino dell’arte figurativa che, dal mercato culturale, transita direttamente al business spietato, non discostandosi poi di molto da quello economico-finanziario, se si pensa che oggi ad esempio molte pagine di economia e finanza dei maggiori quotidiani italiani parlano spesso di investimenti nelle opere d’arte (soprattutto moderne e contemporanee) come se si trattassero di titoli azionari o di beni immobili.

Detto questo, va subito precisato che Manzoni non è solo quello della propria ‘merda’ resa Arte con la A maiuscola, con tanto di quotazioni giunte oggi a 275.000 euro per ogni lattina ancora in vendita, benché la maggior parte si trovi ormai sparsa nei musei di tutto il mondo. L’attività di Piero si snoda lungo un decennio scarso, facendosi dapprima conoscere all’interno del Gruppo Spazialista, in cui militano l’iniziatore Lucio Fontana assieme ai più giovani Enrico Baj e Roberto Crippa. Ma lo spazialismo manzoniano è qualcosa di estremamente minimale e ‘terreno’,  in cui predominano monocromi bianchi oppure fumettistiche configurazioni antropomorfe, quasi a preludere a svolte ben più radicali, in cui egli, conoscendo assai bene i meccanismi e le storie dell’arte, vuole distruggere la tradizione e l’essenza, per giungere al paradosso oppure alle equipollenza con la vita medesima. In fondo nell’indefesso lavorio dei suoi ultimi tre-quattro anni, Piero si applica su due fronti.

Dunque, in  primis, ad azzerare, mediante oggetti fisici, il concetto di fare arte, giungendo ad esempio a tracciare, nel 1960, una linea di 7200 metri su un rotolo di carta azionato meccanicamente da una rotativa, per farlo quindi piombare, a disegno ultimato, in un enorme cilindro zincato. In secondi s’Manzoni precorre la bodyart quando, giocando su un situazionismo effimero, dichiara opera d’arte con tanto di firma e autocertificazione il proprio autografo sul corpo di una persona; esistono in tal senso le ricevute numerate – anch’esse vendute quali opere – in lingua francese, ovvero la serie Carte d’Authenticité, in cui vi è scritto che si tratta di vera arte. Di questo tipo di performance, restano, inoltre, alcune fotografie in bianco e nero in cui si vede che, in una galleria d’arte, Piero sigla con il pennarello i corpi ignudi di alcune giovani modelle dichiarandole ‘statute viventi’ o meglio sue opere artistiche. E lo stesso discorso vale per le impronte digitali su uova o su foglietti, per il fiato d’artista racchiuso in palloncini, per i piedistalli (‘basi magiche’) in cemento sparsi qua e là per il mondo, eccetera.

Per anni tanta critica ha minimizzato l’importanza dell’opera di Manzoni, ritenendola una propaggine del Dada o affiliata alle tante provocazioni degli amici Fluxus o ancora fiancheggiatrice dei Nouveaux Réalistes: ma egli è in verità molto di più, grazie a una consapevolezza resa nota in alcuni scritti teorici che, per la prima volta, vengono riuniti tutti assieme in appendice alla monografia Piero Manzoni scritta da Elio Grazioli e uscita da Bollati Boringhieri nel 2007. Basta leggere cosa egli scrive sulla rivista Evoluzione delle Lettere e delle Arti nel gennaio 1963, a pochi mesi dalla scomparsa, in cui anticipa l’arte dei successivi decenni: “Nel 1959 avevo pensato di esporre delle persone vive (altre morte volevo invece chiuderle e conservarle in blocchi di plastica trasparente”: vengono subito in mente il mongoloide di Gino De Dominicis e gli squali in formalina di Damien Hirst. “In un progetto precedente [al maggio 1961] intendevo produrre fiale di ‘sangue d’artista’”: e qui la mente corre incontro all’Aktionismus viennese. E dulcis in fundo: “Attualmente ho in una fase di studio un ‘labirinto’ controllato elettricamente, che potrà forse servire per test psicologici e lavaggi del cervello”: è già chiaro il XXI secolo con il Grande Fratello, la realtà virtuale, i social media, la computer art è molto altro ancora… benché il suo ‘labirinto’ resterà per sempre nel mondo delle utopie…

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