Si dice che la vita non smetta mai di sorprenderci. La morte pure e quando vuole gioca strani scherzi sui quali a molti piace ricamare storie intrise di coincidenze, destino e, nel nostro caso, romanticismo. Nulla di strano, è un modo come un altro per esorcizzare una paura che è insita nella natura dell’uomo. La paura dell’ignoto, di ciò che non si conosce.
Quando si muore, si muore soli, diceva Fabrizio De Andrè. Enzo Mari e Lea Vergine, marito e moglie, però hanno provato a contraddirlo, perché se ne sono andati praticamente insieme, a un giorno di distanza l’uno dall’altra, il 19 ottobre il primo, il 20 la seconda. Mari è stato un designer tra i più importanti del Novecento, Lea Vergine ha avuto un ruolo di primo piano nella critica, specie per quel che riguarda la body art.
Lea Vergine, allieva di Giulio Carlo Argan, nel 1974 pubblicò Il corpo come linguaggio, un testo che è tutt’ora un punto di riferimento per chi si interessa di body art. Fece conoscere il lavoro di artisti come Gina Pane, Urs Lüthi, Vito Acconci, Vettor Pisani, Gilbert & George. Spesso le performance di costoro risultavano eccessive agli occhi del pubblico. Lea Vergine ne diede una spiegazione razionale, basata non solo sulla prima impressione.
«Attraverso il racconto reificato e antropoformizzato essi sconfessano la propria aggressività e la rimproverano su qualcosa d’altro. L’interesse di detti rituali dipende anche da una diminuzione del senso dell’effettiva realtà. Perciò l’orrore deve divampare affascinante ed esso solo è abbastanza brutale da rompere ciò che soffoca», scrive Lea Vergine spiegando la corporeità di questi artisti che diventano essi stessi un’opera in fieri e irripetibile nella sua esecuzione.
Inoltre, Lea Vergine diede voce all’Altra metà dell’Avanguardia (titolo di una mostra da lei curata a Palazzo Reale di Milano nel 1980), cioè alle donne. Nell’allestimento di Achille Castiglioni erano esposte le opere di oltre cento artiste che avevano aderito alle Avanguardie storiche dei primi del Novecento e che prima di allora non erano praticamente mai state menzionate. Lea Vergine ha avuto il merito di aver dato loro il posto che spettava nella storia dell’arte, fino a quel momento dominato da una forte componente maschile.
Nato a Novara nel 1932, Enzo Mari, cinque Compassi d’Oro e una moltitudine di progetti realizzati e non, ha avuto un approccio al design di tipo artigianale. Nel suo libro 25 modi per piantare un chiodo (2011) apriva con questa frase: «Di me, si scrive che ho fatto qualche oggetto eccezionale. Se questo corrisponde al vero, è forse perché non sono mai andato a scuola». Ovviamente Mari con questo non voleva sminuire l’istruzione (dal 1952 al 1956 frequentò l’Accademia di Brera), ma che, arrivando da una famiglia di umili origini, come diceva lui, si era dovuto “fare da solo”. Era in sostanza il primo che aveva studiato.
Leggendo quel libro si comprende innanzitutto che la curiosità è il motore che spinge al miglioramento e che non si smette mai di imparare, neppure alla soglia degli ottant’anni, tanti ne aveva all’uscita della sua autobiografia, il cui titolo ricalca quello della prima tesina.
«La bellezza mi emoziona, mi colpisce al cuore, ma questo per me non è sufficiente: voglio capire a tutti i costi come ci si arriva». Ecco la molla che farà dell’Enzo Mari studente, l’Enzo Mari designer, la cui ricerca dell’essenziale diventerà vera e propria ossessione. Una ricerca che ha l’uomo come centro del suo universo, perché un oggetto deve essere funzionale sì, ma non per sé stesso, bensì per chi lo adopera.
Mari intende l’uomo non solo in età matura, ma già nei suoi primi anni di vita, se arriva ad affermare che bisognerebbe dare il premio Nobel a ogni bambino che compie due anni. Perché il bambino vuole capire a tutti i costi il mondo che lo circonda. A quello serve il gioco, non a passare del tempo come credono in molti. Da questa intuizione nasce Il gioco dei 16 animali, che si compone di figure in legno da incastrare secondo una certa logica.
È uno degli oggetti più famosi di quelli progettati da Mari. Tra gli altri ricordiamo le sedute Soft Soft per Driade (1971), Tonietta per Zanotta (1987), Mariolina per Magis (2002), il calendario Formosa per Danese (1963). Per Mari, la forma, questione basilare, è necessario che abbia delle prerogative: eterna, fuori dal tempo, libera dalle mode, e la sua qualità dev’essere alla portata di chi fabbrica l’oggetto. Un principio questo che mostra le prime crepe all’inizio degli anni ’70, quando l’utopia del design «termina a causa del mercato globalizzato».
Una possibile soluzione per Mari è di tornare a una dimensione più locale della produzione e del consumo, di investire, nei limiti del possibile, nella produzione artigiana, oltre che di scuola e cultura. Per non perdere la nostra umanità, per non correre il rischio di trasformarci in automi. Del resto, dice Mari, «gli attuali meccanismi economici richiedono che il numero degli ignoranti sia il più vasto possibile, incapaci di valutare, smontare, rimontare, capire, adattare, migliorare ciò che teniamo nel palmo di una mano».
Una visione apocalittica, che è mitigata dalle parole con cui Mari decide di chiudere 25 modi per piantare un chiodo. Un breve racconto che è insieme monito e speranza. «Quando mi chiedono chi è il miglior progettista che conosco, rispondo sempre: un vecchio contadino che pianta un bosco di castagni. Sa benissimo che non vivrà a sufficienza per poterne mangiare i frutti, per scaldarsi col suo legno o usarlo per farne uno sgabello, né rinfrescarsi d’estate all’ombra delle sue fronde. Non lo pianta per sé, ma per i suoi nipoti».