Paradigma del pensiero estetico di Costanzo Rovati (Milano, 1939), anche se iconograficamente sui generis rispetto alle sue immagini consuete che abbiamo nella mente, è l’opera “Quel filo rosso” del 2018 che, proprio perché di recente realizzazione, induce a soffermarsi sulla complessa semplicità compositiva. Affermazione che pare una contraddizione in termini e invece è l’effettiva condizione dell’opera nella quale la complessità è racchiusa nell’incontenibile vastità concettuale, mentre la semplicità (solo apparente) è nell’immagine terminata, gradevolmente fruibile grazie alla capacità di sintesi dell’autore, e tuttavia polimaterica in perfetto accordo con le numerose diramazioni del pensiero. Traduciamo, dunque, in fil rouge, nell’accezione di filo conduttore, ossia quanto determina la continuità e la coerenza dell’attività artistica di Rovati e, nello stesso tempo, mantiene il collegamento del percorso del pensiero, sempre tenendo presente che questo si sviluppa in modo centrifugo su diversi fronti.
La coerenza con se stesso e con l’attualità della nostra epoca, che per un artista è elemento fondamentale della propria espressione, è per Rovati anche un percorso che anticipa il tempo nel senso che tutto quanto si trova espresso in ogni sua opera, sia nella forma che nel concetto e nei materiali, ultimamente è diventato un tema di grande dibattito sociale, mentre per l’artista è un argomento vivo e attivo da decenni.
In sintonia con l’aforisma dello scienziato francese, Antoine Lavoisier, secondo il quale “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, naturalmente riferito ai corpi fisici, i materiali che concorrono nella composizione delle opere di Rovati provengono da mondi già esistenti, naturale, umano, industriale, sempre tutto già presente in natura magari sotto altre forme, un unico elemento o la combinazione di più elementi. Successivamente, poiché “nulla si distrugge, tutto si trasforma”, si entra nel vivo del dibattito e tale trasformazione, che nella vita quotidiana e soprattutto per i prodotti industriali si chiama riciclaggio, in arte assume una destinazione nobile e qualsiasi materiale diventa pittura, scultura, istallazione e, soprattutto, acquisisce una sorta di eternità, una testimonianza del bello legato al pensiero alto creativo dell’artista che sa cogliere l’anima, dei materiali e della propria idea, e dà la vita a una creatura nuova, ossia all’opera d’arte. Così, anziché essere causa di inquinamento diventa un essere superiore.
Capita perciò che se la conchiglia lasciata nel suo ambiente dopo la dipartita del suo abitante può lasciarsi trasformare dal tempo e dagli agenti atmosferici e diventare sabbia bianca, nelle mani dell’artista può trasformarsi in pigmento; allo stesso modo, la bottiglia di plastica, che abbandonata nell’ambiente inquinerebbe, se rimessa in lavorazione si trasforma in un altro oggetto di uso quotidiano oppure raggiunta dalle mani dell’artista viene modellata in nuove forme estetiche.
Lo stesso processo di trasformazione si trasforma e se l’origine delle cose risiede nei tre mondi naturali, minerale, vegetale, animale, e avviene secondo le leggi stesse della natura, nel passaggio successivo le nuove creature derivano dall’intervento dell’intelletto, della capacità, del sentimento, della mano dell’uomo.
Riguardo la creazione delle sue opere per Costanzo Rovati, il primo punto, quello di partenza, è un atto d’amore come si conviene ad ogni attività creativa. Nasce un sentimento che è fatto di scoperta, di studio, di approccio, di corteggiamento, di tacito accordo tra le parti per il proseguimento e lo sviluppo della relazione, persino con l’offerta di doni. Tale sentimento, così profondo, è sì diretto all’opera da compiere, ma anche ai vari elementi che la compongono, ossia ai materiali pensati che possono provenire da diversi ambienti e che sono spesso strappati al riciclaggio, come per gli oggetti provenienti da una vita precedente nella quale avevano identità e funzioni diverse. A partire da quel momento ogni singolo materiale assurge alla nobiltà creativa, sottoponendosi all’azione della passione modellatrice che può rivelarsi anche violenta e servirsi di mezzi e attrezzi per nulla gentili come può essere, per esempio, la combustione.
Il fuoco, che è anche uno dei quattro maggiori elementi cosmologici, interviene sia in senso reale che metaforico e si rivela il mezzo efficace a rendere la materia da modellare duttile, malleabile, plasmabile, proprio lo stesso effetto che consegue dalla passione e che sveglia la disponibilità degli animi.
Tale pluralità di condizioni e intenzioni sono insiti in “Quel filo rosso”, il pensiero attraversato dalla scossa elettrica che leggermente vibrando percorre il macrocosmo riflesso nel microcosmo alla ricerca di ciò che dovrebbe rendere migliori le persone nella loro condizione di esseri umani intelligenti, ma dove trova anche qualcosa che invece è molto lontano da ciò. Tutto quanto avviene in una visione, tuttavia, sempre ottimistica che evidenzia la peculiarità dell’arte di elevarsi al di sopra della mediocrità, perché il bello, l’estetica, l’armonia, la positività, i buoni sentimenti rendono migliori l’uomo, la vita, il mondo. Convinzione condivisa da filosofi e pensatori di tutti i tempi e dagli uomini comuni, non tutti purtroppo, mentre gli artisti hanno la grande responsabilità di esserne gli autorevoli interpreti e finanche i mediatori.
“Quel filo rosso”, infatti, ha anche la capacità di sottolineare quelle piccole imperfezioni che ci circondano: segnando la superficie con una retta, che ci appare come un segmento essendo la sua infinità nascosta all’occhio umano, dividendola orizzontalmente a metà, determinando una sorta di orizzonte, crea una specularità e uno specchiamento reciproci e infedeli delle due metà. Ma, considerando la specularità verticale, appare come una bilancia, o una farfalla, in cerca di equilibrio formata da due parti contrapposte, destra e sinistra, e unite dalla forma geometrica perfetta: il cerchio; anzi, due cerchi dei quali quello blu nella metà superiore della superficie è l’anello bilanciere e quello azzurro, dotato anche di contrappeso inferiore, è concentrico con l’area dell’opera e abbraccia tutti gli elementi dell’immagine sfiorandoli, come garantire la certezza dell’equilibrio tra le parti.
Tutto quanto considerato fin qui è ben specificato, così come sono rispettati l’impiego, l’uso, la lavorazione di materiali diversi e di differenti origini, assieme alla scelta di cromie delicate, rassicuranti, che completano un’immagine sì concettualmente complessa, ma anche elegante e armonica, nel pieno rigore di ciò che cerchiamo: la bellezza.
Una traccia fondamentale in ogni e in tutte le opere di Costanzo Rovati, così come in “Quel filo rosso”, è data dai titoli, non tanto perché questi possano semplicemente esserne la didascalia, indicare un soggetto, un protagonista tanto da formare dei preconcetti in coloro che si accostano all’opera e si precostituiscano mentalmente delle immagini fuorvianti generando aspettative formali sbagliate, ma perché i titoli funzionano da provocazioni per svegliare la mente di chi osserva e prepararla a entrare in piena libertà nell’universo dell’opera. La vista e, perché no?, il tatto dal momento che la matericità è sempre corposa, abbondante, gradevole da percorrere con i polpastrelli, introducono in quei mondi nuovi, tutti da scoprire, che collegano la fisicità con lo spirito e la storia con l’attualità in un tempo senza tempo e in un mondo assolutamente personale per ciascuno, unico, un Eden del quale l’artista ha generato il Big Bang e ognuno privatamente scopre e trova la propria cosmologia.
Così, per esempio, ne “La curiosità” del 2011 l’esplorazione si preannuncia complessa e laboriosa, ricca di scoperte sotto lo sguardo vigile di un occhio che inquieta e mette a disagio quando lo si considera altrui, umano o divinità, oppure timido, che entra con cautela per non inquinare l’ambiente, se lo si considera il proprio. La curiosità di per sé non è il soggetto definito, anche perché si tratta di un concetto astratto e fisicamente non rappresentabile, ma è, appunto, una provocazione ad agire, a essere curiosi e scoprire questo mondo che sotto quell’occhio vive incurante di essere sottoposto a osservazione.
La continuità del pensiero di Rovati, indicata nel filo rosso, la sua matrice, le origini e le radici, sono chiare in “Una vita. Una luce” del 2010, dove le osservazioni e le riflessioni introdotte dal titolo sono infinite e illimitate, come il cielo dell’opera che ospita la cometa bianca, la meteora, la luce che illumina la notte. Questa, come la vita, si illumina per un determinato tempo e poi sparisce per proseguire chissà dove e chissà per quanto a vagare nell’infinità dell’universo. L’essenzialità iconografica non limita il pensiero anzi, gli consente di espandersi, di approfondire nel silenzio armonioso del cosmo pittorico.
Nondimeno le sculture appartengono a questi stessi concetti e per Rovati la nomenclatura dell’opera non crea differenza, poiché il suo lavoro concettuale è lo stesso e quello manuale, che risponde direttamente al pensiero, trova le differenze solo nelle lavorazioni dei materiali e nelle tecniche ad essi legati per ragioni oggettive. Inoltre, certi materiali e certi pigmenti sono comuni alle opere pittoriche e scultoree tanto che le prime possono essere caratterizzate da matericità e spessori volumetrici e le seconde sono completate da piccoli o grandi interventi pittorici. Particolare che permette una distinzione non proprio netta tra le due espressioni e la diversità è semplicemente nel fatto che le prime si servono di un supporto e si esprimono su un’area definita, mentre le seconde sono volumi che si sviluppano a tutto tondo e occupano uno spazio pluridimensionale. Anche nelle sculture sono impiegati materiali diversi che vanno dalla pietra al bronzo, dal ferro, al legno, alla plastica, spesso uniti in un’unica forma. Le opere concluse, polimateriche, eleganti, luminose, volumetriche, sono anch’esse creature vive, presenze fisiche con un’anima e molto attraenti nell’accendere desideri di contatto fisico nelle cui pieghe dei materiali modellati le dita trovano curve morbide, lisce o ruvide, nei movimenti cristallizzati che si risvegliano al contatto e trasmettono sensazioni piacevoli, dove ciò che la vista registra per forma conosciuta, il tatto, mettendo in campo la relativa sensibilità e l’emozione, spinge alla scoperta e alla conoscenza.
Dunque, che siano “Presenze”, del 2013 o “Ricordi”, del 2010 o ogni altra opera, in “Una storia infinita”, del 2018, vi è lo stimolo sia verbale che artistico per accostarsi alle opere con il giusto animo.