Definire osservatore Enrico Colombotto Rosso (Torino, 1925-Casale Monferrato, AL, 2013) è riduttivo, perché egli non si fermava a tal punto, ma da lì partiva e amava mettere in atto sottili ed eleganti provocazioni con indomita ironia per portare allo scoperto aspetti e particolari sfuggenti, mentre si trincerava nell’enigma del suo mondo.
A Camino, piccolo centro del Monferrato dove si era ritirato nel suo eremo dal 1991, ha vissuto tra le sue rose e i suoi gatti; nella grande casa-studio ha sempre lavorato alacremente, regolarmente dalle cinque del mattino di ogni giorno e produceva opere di carattere museale, di grandi dimensioni, con la piena consapevolezza che il mercato dell’arte guardava altrove. Qui, tra l’incalcolabile numero di opere, da lui realizzate in diversi periodi e le sorprendenti, spesso curiose, collezioni si trovava il senso reale della vita che ha condotto, della ricchezza delle esperienze acquisite, degli incontri e situazioni brillanti, delle amicizie con i maggiori personaggi storici. Amicizie e conoscenze che avrebbero fatto invidia a chiunque. Sbaglia chi, per questo esilio che aveva scelto, pensa di doverlo considerare di interesse “locale”; Colombotto Rosso è tra i pochi artisti italiani le cui opere si trovano realmente in tutto il mondo ed è tra i rari che hanno saputo circondarsi e coltivare amicizie così importanti, amato e stimato sempre. La sua stessa espressione artistica è di respiro molto ampio e, così com’è stata la sua vita, è fuori da ogni schema, da ogni condizionamento, da ogni compromesso, totalmente ed autenticamente, secondo la creatività della sua immaginazione.
Il progetto di vita è chiaro e prorompente fin dalla gioventù quando, con Mario Tazzoli verso la fine degli anni Quaranta del secolo scorso, aprì a Torino la Galleria che farà storia, la Galatea, che trattava opere, per esempio, di Giacometti, Bacon, Balthus. Contemporaneamente aveva già ben definito i temi dominanti del futuro percorso artistico, che dichiarava apertamente e decisamente nello scritto “piccola storia per un bambino che aveva grandi orecchi e piccole zampe”, successivamente pubblicato col titolo “Storie di Maghe per adulti”. Poi i frequenti viaggi in Europa e negli Stati Uniti, i lunghi soggiorni in quella fantastica Parigi di metà secolo, i sodalizi con Max Ernst, Leonor Fini, Stanislao Lepri, Dorothea Tanning, Konstanty A. Jelenski, facevano presagire le qualità innate: l’apertura verso il mondo e l’umanità, la curiosità e l’interesse per la cultura, la società, i comportamenti. In tale ottica si intuisce meglio il perché della realizzazione di un’opera lunga un chilometro, che l’autore sognava di poter vedere tutta esposta, quale simbolo e testimonianza della vita fino ad allora vissuta.
Quella di Colombotto Rosso è una pittura della verità, che si avvale di immagini forti, crude, il cui impatto è spesso ulteriormente reso violento dai colori, dagli accostamenti cromatici dei rossi sanguinei con i neri e gli argenti che creano spazi profondi, misteriosi ed inquietanti, in cui le figure antropomorfe, ma non troppo, urlano silenziosamente i drammi dell’umanità. Per la realizzazione dei dipinti, l’artista prediligeva il procedimento con l’“antica” tecnica, ossia la preparazione della tela, la lavorazione della materia, l’unione dei diversi pigmenti ed infine, quasi come un’apposizione in un solo getto, il componimento della figura, anch’essa fatta con le mescole delle varie sostanze colorate. Simile rapidità del gesto pittorico è una sorta di concretizzazione del pensiero che pare sfuggire ai passaggi naturali dai luoghi della mente alle mani (entrambe, destra e sinistra, con le stesse capacità), per imprimersi sulle superfici pronte ad accoglierlo. Attraverso il segno, che costituisce l’ossatura di un contenuto complesso, egli coglieva i caratteri topici dei sentimenti e le loro proiezioni in un contesto metafisico, surreale e fantastico.
L’evoluzione del segno da cui scaturiscono ritmi armonici, nei disegni assume altra efficacia per la purezza del tratto sottile, nero di china sul candore e la pulizia dello spazio bianco del foglio, il cui percorso è deciso e senza ripensamenti, flessuoso, unico e mai spezzato, con dettagli e particolari anche minuscoli che determinano il carattere. In ogni opera vi è tutto ciò che si può dire e molto di più di ciò che non si può, o non si vuole, dire e che nel fare arte di Colombotto Rosso trova un filone linguistico-espressivo d’un certo tipo, unico, solo suo, per il quale i pudori, i timori, le verità si spogliano delle apparenze e delle ipocrisie per comparire in tutto il loro essere. Schiettezza della quale egli sembrava aver raccolto l’eredità di Bosh, ma alla cui drammaticità aggiungeva ironia nello sviluppo metamorfico kafkiano delle sagome, fino a raggiungere una condizione particolare dell’opera d’arte: quella di contenere, unire, contrapporre la bellezza dell’estetica e l’inquietudine del contenuto e fare sì che esse impartissero fascinazioni diaboliche, alle quali non si può sfuggire. Le figure smaliziate e trasformate non assomigliano al proprio autore che era, in ogni momento, in ogni occasione e per sua natura, sempre sereno, solare, poeta nella vita e nel lavoro, geniale e sensibile. Proprio per questo esse sono vere e incarnano l’umano conflitto tra l’essere e l’apparire, fonte e origine dell’allucinante persecuzione dei fantasmi che dimorano nell’inconscio e regolano i comportamenti, quando non addirittura la morfologia fisica di espressioni e atteggiamenti.
I confini tra realtà e immaginario sono annullati per dare vita ad un nuovo spazio, un nuovo luogo dove l’invenzione si trasforma in quotidianità ed accoglie debolezze, passioni, sentimenti, ambizioni mostrandone, però, il lato caricaturale che invita tutti, indistintamente, a riconoscersi attraverso una scomoda autoironia. È questa una condizione fondamentale delle opere di Colombotto Rosso affinché in esse, malgrado siano territori di costante fermentazione di paure, credenze, ossessioni, non si verifichi mai la catastrofe, la quale lascia il posto alla speranza oltre la barriera psicologica, dove il turbamento si placa e sorge la consapevolezza dell’esistenza reale sulle varie forme di bellezza, fino ad intuire lo splendore. Si verifica, così, una sorta di alchimia, dove la sublimazione della bellezza, in modi rapidi e sintetizzati, raggiunge apici eccessivi nelle immagini inquietanti e, nello stesso tempo, anche incantevoli nella loro metafora dell’eterno convivere quotidiano dell’uomo con il suo doppio, il cosiddetto positivo-negativo, ovvero il visibile e l’invisibile. E, se il suo linguaggio diretto, senza mezzi termini nella vita come nell’arte, colpisce il segno e rende l’angolo onirico una finestra aperta sulla verità, la vivacità dello spirito creatore, instancabilmente in continuo divenire e solo apparentemente ermetico, fa di Enrico Colombotto Rosso un artista sincero.
Le sue opere trasmettono anche l’eco di un monito e una proposta di vigilanza sui mezzi e metodi di comunicazione attuali, altri dall’arte, che sono sostanzialmente saturi di violenza, esplicita o subliminale e contro l’uomo stesso, ma tanto amati da far godere delle tragedie, allo stesso modo in cui i bambini prediligono i racconti dell’orrore e trovano divertimento nella paura.
Una costante spicca lungo tutto l’arco produttivo di Colombotto Rosso: nel suo esilio volontario immerso in continue riflessioni, dalla gioventù brillante fino alla fine, la coerenza e la fedeltà al suo essere senza cedimenti all’apparire, a dispetto delle tentazioni offertegli da immancabili e innumerevoli occasioni seducenti.
Egli è rimasto se stesso, sempre, sfidando convenzionalismi e conformismi sia umani che artistici.