Nascita e sviluppo del moderno-contemporaneo. Gli Impressionisti e 10 eventi straordinari 1863-1937


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I ‘quadretti della nonna’ e dieci eventi straordinari che dal 1863 al 1937 riguardano mostre, salone, expo, secessioni, articoli di giornali, polemiche e neologismi. Cosa significa tutto ciò? Occorre procedere con ordine e ricordare che, circa quarant’anni fa, un noto docente universitario, durante una delle sue affollatissime lezioni di storia dell’arte contemporanea, definisce le opere degli Impressionisti come “quadretti della nonna”. Stupore, ilarità, dubbio, indignazione fra gli studenti stipati in Aula Magna, ma l’equivoco viene presto fugato dallo stesso professore, il quale, con quella frasetta volutamente provocatoria, intende dire che gli Impressionisti rappresentano per lui la fine di un percorso e non l’inizio di una nuova era per l’arte figurativa.

Édouard Manet – Le Déjeuner sur l’herbe, 1863

A distanza di tempo, trascorsi 3,4 decenni, in cui l’arte contemporanea – se si esclude quella praticata sulle nuove tecnologie, pertanto tendenti a riprodurre figurativamente il vecchio e non a sfruttare le immense risorse del medium stesso – propone più o meno sempre (spesso anche molto bene) le analoghe variazioni su ricerche di ascendenza via via concettuale, pop, astrattista, performativa, mixed-media, Che le neo avanguardie inventano tagliandi 50 e 70 del secolo scorso, il problema lanciato dal cattedratico oggi pensionato resta quasi identico: a leggere tutte le storie dell’arte moderna e/o contemporanea – sui concetti di “moderno” e di “contemporaneo” è utile consultare il precedente articolo – gli Impressionisti (e con essi i Macchiaioli) sono lo snodo cruciale, il rito di passaggio, il momento  di rottura non solo tra stili e periodi diversi, ma soprattutto tra due scuole di pensiero inerenti l’esistenza stessa dell’estetica occidentale.

Dal punto di vista tecnico si parla infatti, nella storia dell’arte figurativa europea, a livello storico, di inizio e di fine dell’uso della prospettiva e di quanto di realista, naturalistico, oggettivo possa implicare quest’uso. Il discorso è vero: la riscoperta della prospettiva (e del realismo), già impiegata da greci e romani, anticipata da Giotto e compiuta da Piero della Francesca cambia volto all’idea dell’arte, così come si afferma dalle invasioni barbariche per quasi un millennio. Il tramonto più o meno graduale, in pittura, della prospettiva – ancora oggi pertanto studiata e impiegata in licei, istituti, Accademie di Belle Arti – arriva teoricamente con l’invenzione della fotografia che consente all’uomo di riprodurre la realtà “obiettivamente”, lasciandolo quindi libero di sbizzarrirsi, su una tela o un foglio, in forme, linee, colori, disegni in senso antiprospettico e antirealista, fino a giungere poi nel Novecento al dualismo figurativo/astratto, dove con il termine figurativo si intende qualcosa che riconduca alla realtà fenomenica.

Certo, la questione è anche più complessa e delicata, ma il punto è che se gli Impressionisti (e i Macchiaioli) siano dentro o fuori a questa “rivoluzione” non solo artistica, ma più antropologicamente culturale: fine o inizio? fuori o dentro il moderno (o contemporaneo) inteso quale esperienza avanguardista, secondo quanto accaduto grosso modo dal 1900 a oggi? Non sembra una questione da poco, tant’è che viene tutt’oggi dibattuta, perché non esiste una verità in assoluto, ma forse tante piccole verità, ciascuna con le proprie motivazioni, che danno via via torto o ragione agli uni o gli altri a seconda dei criteri impiegabili per definir lo spartiacque tra vecchio e nuovo, fra tradizione e avanguardia, fra un prima e un dopo il moderno-contemporaneo.

A questo punto, però, più che seguire gli estimatori o i detrattori dell’Impressionismo quale crocevia  tra una fine o un inizio – riducendo poi banalmente la querelle agli elementi di novità, trasgressione, sperimentalismo presenti nella pittura, nel rapporto persino ambiguo con la prospettiva classica, addirittura senza rilevare anche molti altri segnali extrartistici – occorre rifarsi a un alternativo modo di vedere l’arte, non impostato su opere e autori, bensì su eventi straordinari la cui unicità serve a cambiare tanto il contesto quanto la teoria e la prassi dell’arte medesima.

Senza affermarlo esplicitamente, in quanto inserito nel capitolo centrale XIX secolo, dopo i due su Rinascimento e Prima età moderna e chiaramente dopo i restanti Inizio del XX secolo e Il Dopoguerra, il britannico Lee Chesire in 50 momenti che cambiano l’arte (2018) sembra far iniziare il moderno-contemporaneo con un paio di eventi straordinari riguardanti più e meno direttamente gli Impressionisti: in effetti, nella “prospettiva” istituzionale tutto può cominciare il 15 maggio 1863 a Parigi con l’apertura del Salone des Refusés organizzato in segno di protesta. L’esclusione di molti quadri dal annuale e avrà segna della compassata Accademia: tra le opere rifiutate c’è Le déjeuner sur l’herbe di Claude Manet, con la quale si dà inizio all’Impressionismo medesimo. Ma gli stessi Impressionisti, sospettosi dell’ufficialità presa dallo stesso Salon anche nelle due volte successive (1864 al 1873) organizzano da soli una propria mostra, aiutati da un personaggio in vista in fondo a loro affine: si tratta di Nadar, forse il primo scattare foto d’arte in piena consapevolezza, dall’occhio di riguardo proprio allo stile impressionista: sono 30 artisti con oltre 150 opere a invadere il grande atelier di Nadar con la cosiddetta Exhibition des Impressionistes che fa scuola.

Fa scuola perché, per la prima volta, un gruppo di artisti decide di autogestirsi, rifiutando accademie e tradizioni, ma facendo gioco di squadra, Unito idealmente da un sentire comune, che non è ancora in grado di sfociare in manifesti programmatici, come accadrà una trentina d’anni dopo a molit altri, benché gli Impressionisti, derisi o sminuiti dagli intellettuali ufficiali, vengano avvicinati da numerosi fiancheggiatori tra critici, studiosi, collezionisti, letterati. Fa scuola anche, otto anni prima, la quarta edizione dell’Exposition Universelle di Parigi, che il 1 aprile 1867 apre i battenti, ospitando 42 Paesi, 50.000 espositori, 1 milione e mezzo di visitatori. Il Giappone, presente con le delicate immagini di Hokusai e Hiroshinge trova schiere di ammiratori tra cui gli Impressionisti e i pittori poi denominati postimpressionisti alla base della svolta novecentesca.

Per la prima volta l’Europa accetta e apprezza l’arte fuori dalla propria sfera: è facile per la cultura nipponica in via di occidentalizzazione, un po’ meno per l’Africa ‘selvaggia’, che vanta pure qualche artista occidentale in grado di apprezzarne l’estro fantasioso, la sintesi visiva, l’approccio quasi espressionista, la destrutturazione in senso antiprosettico. È, infatti nel 1907 che Picasso, dopo la visita a una raccolta di maschere, totem, sculture dell’Africa subsaharian al Musée du Trocadero di Parigi inizia una ricerca interiore che lo porta al Cubismo.

E proprio il Cubismo grazie alla personale di Braque, inaugurata a Parigi il 14 novembre 1908, nella galleria di Kahnweiler, riceve l’appellativo tuttora in uso, coniato, come già accade proprio con la nascita del moderno-contemporaneo, da un’iniziale valutazione spregiativa del critico Vauxcelles, in un’analoga sorte linguistica toccata appunto ad altri movimenti quali i coevi Fauves o gli antecedenti Impressionsti e Macchiaioli.

A quei tempi, pensando sempre alle svolte nella storia dell’arte, anche la cultura germanica non sta a guardare, perché sono molte le città tedesche e austriache ad accogliere eventi straordinari, come le due Secessioni, rispettivamente a Monaco (1892) e Vienna (1897), a risultare le prime forme di dissenso ‘documentato’ da parte di giovani artisti pittori, scultori, architetti, designer (anche se all’epoca non si chiamano ancora così) contro la tradizione, attraverso una perentorietà che si dissocia e si scosta, talvolta bruscamente, dal passato anche recente.

Le secessioni preludono al primo coup de théâtre in cui l’evento straordinario viene annunciato sfruttando la nascita dei moderni mass media (in questo caso il giornalismo) quale veloce strumento di risonanza internazionale e come veicolo pubblicitario che si fa via via efficace, rapido, incisivo, popolare. Si sta ovviamente parlando del Futurismo italiano che viene annunciato dal fondatore è Filippo Tommaso Marinetti il 20 febbraio 1909 sul quotidiano parigino Le Figaro in lingua francese, per far conoscere a tutto il mondo un inedito movimento pluriartistico, che guarda in avanti e metaforicamente ammazza tutto ciò che resta indietro. E sono in molti gli studiosi a dire che il futurismo risulta più importante per i manifesti redatti spesso collegialmente su ogni forma dello scibile umano, nonostante un’indubbia supremazia riconosciuta già allora dei pittori (Boccioni, Balla, Depero in primis) su ogni altro artista-intellettuale in quanto risultati espressivi.

Il futurismo dà la stura alla genesi di altri movimenti consimili, sull’intrep Pianeta, da allora sino grosso modo agli anni Trenta, quando i regimi totalitari a destra (fascismo, nazismo, franchismo) e a sinistra (stalinismo) scoraggiano, censurano, perseguitano ogni tentativo di ciò che ormai va definendosi come avanguardia nell’arte per questo moderna e/o contemporanea.

In mezzo a tutto questo possono ancora venire ricordati due eventi straordinari di segno opposto, entrambi in Germania, entrambi nella citata effervescente Monaco, entrambi riferiti a due mostre particolarissime. Da un lato il 18 dicembre 1911 Der Blaue Reiter (il cavaliere azzurro) è un’antologica che dà il titolo un intero movimento, capitanato da Kandinskij (storicamente il primo astrattista) diventando altresì un’iniziativa itinerante, allargata pure ad altri esponenti del moderno come i francesi Delaunay e Rousseau, spingendosi a Colonia, Berlino, Helsinki, Oslo, Budapest.

Dall’altro lato, dopo circa un quarto di secolo di esperienze vertiginose a siglare l’apoteosi, su tutto il globo terrestre, delle avanguardie oggi definite storiche, il 19 luglio 1937 si inaugura la Mostra d’arte degenerata che i nazisti allestiscono ridicolizzando i quadri di Klee, Grosz, Mondrian, Prampolini, Marc, Schwitters. Molte di queste opere vengono messe al rogo in lugubri falò, dove si bruciano anche i libri di poeti, romanzieri, filosofi: non succede dall’epoca delle iconoclastie, precipuamente medievali. Forse non è un caso che, un anno prima, durante un seminario, a New York, tenuto dal pittore muralista messicano Siqueiros, un certo Jackson Pollock viene per così dire introdotto all’uso del colore pure: con il senno di poi è forse l’evento straordinario destinato a cambiare l’arte americana. Ma questa è già un’altra storia che fa parte della seconda avanguardia che provenute alla ‘stretta’ attualità e all’odierno moderno-contemporaneo.

Ma per tornare al quesito iniziale sui ‘quadretti della nonna’, chi ha ragione e chi torto? La riposta non può essere e univoca, anche perché idieci eventi straordinari discussi, che dal 1863 al 1937 coinvolgono mostre, salone, expo, secessioni, articoli di giornali, polemiche e neologismi forniscono tutti delle risposte che a loro volta rimandano a ulteriori domande. Forse Pollock e il dopo-pollock, ossia l’altro ieri e oggigiorno potranno dire l’ultima parola (nel prossimo articolo).

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