Conosciuto per essere uomo forte, di grande carattere, a volte un po’ rude e spigoloso come nei lineamenti fisici, Piero Ruggeri (Torino, 1930 – Avigliana, TO, 2009), quando ha sentito che se ne stava andando ha comunicato la sua resa senza drammi, comunicando con gli amici e con chi gli stava vicino i pensieri e le emozioni con quel monosillabo, “bon” (tradotto in italiano: basta, con lo stesso valore di chiuso, fine), che per i più non ha alcun significato, mentre un piemontese autentico, qual era lui, conosce bene il contenuto di quelle tre lettere, molteplice, variabile, intenso, profondo, il tutto e il nulla, soprattutto l’inesprimibile.
Piero Ruggeri ha espresso la sua arte, passionale fino alla fine, nelle sue opere copiosamente materiche, plasmate anziché dipinte, come “Cuore” del 1965, nella quale tanto amore è manifestato con una forma evocativa rossa che occupa quasi totalmente, anche se è spezzata a metà verticalmente da un taglio netto, bianco. La sua Torino, che egli ha amato tanto, tuttavia non gli ha reso gli omaggi che si tributano ad un figlio illustre come lui.
Amava senza riserve la “sua” frazione Battagliotti di Avigliana, dove aveva scelto di vivere e lavorare e dove è rimasto per tutta la vita, fedele al luogo e agli affetti, ai paesaggi, agli uomini, ai personaggi caratteristici che spesso compaiono nelle sue opere e partecipano alla sua immortalità, come il “Ceccu” o la “Tata”, immersi in quella natura generosa, implicitamente comunicando l’attaccamento del loro autore alla vita e al luogo.
Ruggeri ha sempre anteposto i sentimenti alla sua cultura ricca, maturata ed in continuo accrescimento. I primi si possono riassumere in un aggettivo piuttosto ricorrente nei titoli delle opere ed è “grande” (“Grande Tata”, “Grande natura morta”, “Grande rosso”), da cui si evince lo slancio, l’entusiasmo, la proiezione del proprio essere verso un oltre infinito e gli altri. La sua cultura, storica e attuale, fluisce automaticamente e spontaneamente nel suo linguaggio pittorico, plastico, formale, cromatico, concettuale. Le sue opere piacevano e piacciono ai critici di ogni tendenza, tutti concordi a riconoscere la validità artistica ed estetica del suo lavoro, ognuno secondo le personali considerazioni e riflessioni. A Luigi Carluccio va sicuramente il merito di averne saputo individuare la genialità ancora embrionale fin dagli inizi. E Francesco Arcangeli, tanto legato al naturalismo dei suoi “pupilli” della generazione precedente, vedeva in Ruggeri un nuovo interprete e continuatore di un’espressione d’arte che fa storia.
La peculiarità più evidente in tutto il suo percorso artistico è certamente la centralità dell’uomo, della natura, dei sentimenti, sempre difendendo la creatività libera e gestuale assieme all’energia e al vigore compositivo con un linguaggio configurato dalle esperienze dell’action painting, dell’espressionismo, dell’informale, del naturalismo. Tutto ciò come bagaglio culturale ineluttabile e, tuttavia, mai condizionante, secondo la sua spiccata personalità che fin dai primi passi nell’arte gli aveva fatto scegliere la non adesione ad alcuna tendenza o movimenti culturali, ai quali ha sempre però guardato con interesse.
Ugualmente primaria nella vita come nell’arte, per Ruggeri è stata l’esuberanza comunicativa che glissa le parole, lui piuttosto taciturno e riflessivo, per prorompere nelle opere, nelle quali emerge la tensione di una ricerca dell’assoluto imposta alle cromie intense, quali i neri profondi o i rossi decisi fino ai bianchi opachi o brillanti, dei pigmenti abbondantemente materici e modellati, plasmati in forme, segni, spessori occupanti totalmente lo spazio di ogni superficie, fuoriuscendone. Monocromie alternanti tra toni pieni e trasparenze o contrasti potenti, fauvisticamente azzardati, segni tracciati col colore o con la materia, compongono immagini che a volte appaiono come mappe di paesaggi a volo d’uccello per l’uniformità della visione su tutta l’area dipinta, altre volte focalizzano lo sguardo al centro dove si individuano i profili di una o più figure.
Nell’iconografia di Ruggeri si riscontra la permanenza di una sottile drammaticità ispirata dalla semantica di De Kooning e contemporaneamente il parallelismo col discorso plastico di de Staël, che determinano un personale lirismo dell’infinito, emergente nell’astrazione dinamica e coloristica risultante essere una precisa organizzazione di energie, una progettazione concettuale in grado di ordinare gli effetti della convivenza di istinto e raziocinio, emozione, ragione, cultura.
Tali capacità artistiche, pari a quelle dei maestri citati ed aventi lo stesso carattere di internazionalità, emergono da subito in Ruggeri che, giovanissimo, inizia le partecipazioni alle rassegne più importanti come furono negli anni Cinquanta Francia-Italia, la Biennale di Venezia e la Biennale di San Paolo del Brasile. Parallelamente all’attività espositiva si evolve il suo linguaggio pittorico che si pone in atteggiamento aperto di indagine critica verso il dibattito culturale contemporaneo per elaborarlo e personalizzarlo. Il suo percorso si snoda su una parabola con svolgimento graduale, i cui passaggi appaiono naturali, spontanei e persino inevitabili, che mantengono inalterati i carismi innati e istintivi, governati dalla cultura; quelli rispondenti alla sua inclinazione naturale con i nomi di passione, emozione, vigore e che in ambito alla storia dell’arte si chiamano informale, espressionista, gestuale.
Ben presto abbandona l’immagine iconica, anche se essa non è mai stata accademica o leziosa, per una sua necessità espressiva pressante e copiosa che lo induce a ricercare un modo altro, adatto alle sue urgenze interiori, agevolate dal gusto estetico e dalla perizia tecnica. Da qui la forma si scioglie, il gesto libero ed elegante stempera i pigmenti in dipinti, quasi sempre di grandi dimensioni, nella consapevolezza di una libertà conquistata e pienamente goduta. La stessa libertà adottata nei disegni, notevoli, dove bastano pochi tratti di china sul foglio bianco, fermi e decisi, a comporre e completare l’opera. I titoli mantengono il legame con la realtà e con il riferimento ad una visione naturalistica, anche se inconsueta all’abitudine visiva quotidiana. “Paesaggio”, “Natura morta”, “Bosco”, “Neve”, sono saldamente legati al suo amore per il borgo Battagliotti e la natura in cui è immerso e sono anche spunti per l’elaborazione della pasta materica con spatolate energiche e partecipazione sensuale.
Il ciclo dei dipinti dedicato a Napoleone degli anni Settanta, evidenzia una raggiunta maturità dialettica ed artistica, capace di cogliere le apparenze, gli umori, i caratteri, per riproporli in immagini dirette ed essenziali, sempre magmatiche, ricche di materia e gesti, fatte di spessori, solchi, graffi che determinano oltre alla forma anche le varianti tonali. È il momento in cui il nero diventa il “suo” nero, sul quale le manovre plastiche trovano la definizione dell’identità inimitabile nella forza dinamica del segno e del gesto, nei movimenti sciolti e decisi, nelle immagini agili e scattanti. Si afferma, nel contempo, il modo luministico sia con gli improvvisi e limitati interventi di colori contrastante, che a volte creano atmosfere misteriose e inquietanti (“Bosco nero”), sia con dipinti monocromi (“Maresh” del 2006, “Rosso vermiglio”) sui quali avviene un silenzioso sommovimento di contrappunti e increspature a disturbare l’apparente quiete.
Dopo, il percorso è lineare e coerente fino alla fine e la totalità degli interessi, delle capacità pittoriche, degli amori artistici, entra in ogni opera, con lo stesso afflato onnicomprensivo e mai esaurito, insaziabile e rinnovabile all’inizio di ogni lavoro, sempre inteso come una nuova fantastica avventura, alla quale solo il colore e la materia possono dare autenticità ed esistenza, nel dominio dell’artista Piero Ruggeri.