La Ferrara di Biagio Rossetti raccontata da Bruno Zevi


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Ingresso della mostra “Biagio Rossetti secondo Bruno Zevi” (cortesia Fondazione Bruno Zevi)

È aperta fino all’11 febbraio 2019 “Biagio Rossetti secondo Bruno Zevi”, la mostra allestita nella sede della Fondazione Bruno Zevi di via Nomentana 150 a Roma, curata da Francesco Ceccarelli, Matteo Cassani Simonetti, Adachiara Zevi e realizzata in collaborazione con il Comitato tecnico scientifico per le celebrazioni del cinquecentenario della morte di Biagio Rossetti.

Era il 1956 quando Zevi dedicò all’architetto rinascimentale, fino allora poco noto se non dagli studiosi del settore, una memorabile esposizione dal titolo “Identità di Biagio Rossetti”, allestita nel Teatro Comunale di Ferrara e poi confluita nella monografia pubblicata da Einaudi nel 1960 che nel 1971 diverrà “Saper vedere l’urbanistica”, saggio complementare al precedente “Saper vedere l’architettura” (1948): in pratica un unico manifesto a dimostrazione del filo conduttore che lega indissolubilmente le due discipline, da Zevi considerate come un corpo omogeneo.

Fu Jacob Burckardt in “Die Kultur de Renaissance” del 1860 a definire Ferrara la prima città moderna europea, affermazione poi ripresa e ramificata in un’analisi più strutturata da Zevi, secondo il quale essa rappresenta il punto più alto raggiunto dalla cosiddetta Addizione Erculea, ovvero il piano urbanistico, promosso da Ercole I d’Este tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, che trasformò radicalmente Ferrara partendo dal suo ormai obsoleto impianto medievale per arrivare alla città di corte che noi conosciamo.

A dirigere i lavori fu chiamato Biagio Rossetti, non un «paladino della città ideale» che amava ragionare su geometrie astratte come tanti suoi contemporanei, bensì un uomo che preferiva concentrarsi su azioni concrete, volte a ripensare i contenuti più che le forme. Tramite scelte mirate, ancorché visionarie, Rossetti diede vita a un episodio più unico che raro nell’urbanistica rinascimentale, in generale propensa a progettare luoghi sovente ideali, a volte utopistici, solitamente “belli da vedere” ma difficili da vivere.

L’asse viario della nuova Ferrara parte dal Castello Estense verso nord, evita la tentazione di soffermarsi e concludere il suo cammino in una scontata piazza centrale (avendo vicini la Cattedrale di San Giorgio e il Palazzo Comunale sarebbe soluzione semplice), ed è intersecato da un secondo asse che genera il Quadrivio formato dai palazzi dei Diamanti, Turchi–Di Bagno e Prosperi–Sacrati. È attorno a questi nodi che Rossetti fa partire la sua urbanizzazione, proiettata nella logica di uno sviluppo futuro, dal momento che prevede un’espansione edilizia volta a includere e a non escludere le abitazioni dalla comunità. In questo senso possiamo affermare che Ferrara è una città democratica, “a misura d’uomo” come si direbbe oggi.

Ragionando su tale fenomeno e su tale anomalia positiva di pensiero, Bruno Zevi si domanda quale architetto-umanista avrebbe avuto l’umiltà e il coraggio di rinunciare a legare il suo nome a una città a schema rigido, a stella, a perimetro ottagonale o a regolare scacchiera? Chi si sarebbe imposto di non gerarchizzare le arterie stradali per distinguere quelle rappresentative da quelle residenziali secondo il modo suggerito dall’Alberti e poi adottato da Haussmann a Parigi nell’Ottocento? La risposta a cui giunge è Biagio Rossetti il quale fa di Ferrara «uno dei rarissimi centri fortificati in cui non ci si sente soffocati e reclusi», questo perché «monumenti e case dei poveri parlano lo stesso linguaggio», quello che pone il bene comune davanti a qualsiasi altra cosa.

Affinché la lezione di Rossetti non andasse perduta, Bruno Zevi, fautore anch’egli dei medesimi principi, organizzò la mostra del 1956. Si trattava di un esperimento nuovo, una vera e propria sfida culturale: allestire nell’Italia del dopoguerra la prima mostra dedicata a un architetto del passato, secondo una visione moderna e “spregiudicata” che privilegiava il “saper leggere l’architettura e l’urbanistica” attraverso fotografie, rilievi e schizzi critici, uniti a una lettura filologica dell’opera dell’autore ferrarese.

L’allestimento, curato da Valeriano Pastor, assieme a Luciano Perret e a Vittorio Clauser, mescolava i rilievi metrici degli edifici alle fotografie di Gianni Berengo Gardin e ai plastici di Costantino Dardi, fondendo i materiali secondo un linguaggio inedito e dal forte impatto espressivo, che fornì nuove chiavi di lettura per l’interpretazione della città storica.

Oggi, a distanza di oltre sessant’anni, la Fondazione Bruno Zevi e il Comitato tecnico scientifico per le celebrazioni del cinquecentenario della morte di Biagio Rossetti vogliono proporre una riflessione storica e critica su quell’esperienza della cultura architettonica postbellica, raccontando lo straordinario progetto critico, espositivo ed editoriale, con materiali inediti quali i disegni e gli schizzi di Pastor raccolti nel suo prezioso taccuino, le lettere, i provini originali delle foto della mostra scattate di Gianni Berengo Gardin, oltre a un ricco apparato fotografico.

In due sale è documentato l’iter del libro su Biagio Rossetti con documenti provenienti dall’archivio Einaudi, mentre una sala è dedicata alla Ferrara dei tempi della mostra, con una rassegna di fonti inedite dell’archivio comunale e dell’archivio Carlo Savonuzzi, grande ingegnere ferrarese. A conclusione della mostra sarà indetta una giornata di studio, e sarà pubblicato un catalogo con la documentazione della mostra e gli atti del convegno.

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