Cosa resterà della Biennale di Architettura “Freespace”


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Sir Norman Foster, Cappella per il Padiglione della Santa Sede, Isola di San Giorgio Maggiore

Resta poco tempo per visitare la Biennale di Architettura 2018 di Venezia che chiuderà i battenti il 25 novembre prossimo. Dalla sua data di inaugurazione, il 26 maggio, “Freespace”, il tema proposto dalle due curatrici Yvonne Farrell e Shelley McNamara, ha abbracciato «la libertà di immaginare lo spazio libero di tempo e memoria, collegando passato, presente e futuro, costruendo sulle stratificazioni della nostra eredità culturale, legando l’arcaico e il contemporaneo», dipanandosi in un coinvolgimento emotivo e intellettuale che ha provato a interpretare la complessa essenza dell’architettura attuale.

Come al solito il nucleo principale dell’esposizione è stato diviso tra Giardini e Arsenale dove si trovavano la mostra “Freespace” con i suoi 71 partecipanti e i 63 padiglioni nazionali, alcuni dei quali sparsi per la città lagunare. C’è da camminare molto per visitare tutto, ma la fatica è appagata da momenti che resteranno impressi in modo indelebile nella mente di chi saprà coglierli. Sì, perché questa Biennale è stata lineare nel suo modus operandi, mai banale (tolta ovviamente qualche eccezione). In altre parole per tutti, comprensibile, democratica, e non soltanto per addetti ai lavori.

Yvonne Farrell e Shelley McNamara hanno dato risalto a un’architettura che, sebbene ormai immersa nella globalità, vuole preservare le identità, spronandole a combattere l’omologazione; che dialoga con gli spazi che andrà a occupare e che li rispetta, come in generale deve rispettare il già fragile ecosistema dal quale è ospitata; che vuole superare il concetto di venerazione dell’archistar per riportare la progettualità a un livello di fruibilità universale, scopo primo dell’architettura.

In sostanza cosa resterà di questa Biennale? Premesso che ognuno giudica secondo il suo gusto e le sue opinioni personali, a nostro avviso sono parecchi gli spunti. Naturalmente vista la mole di presenze, ben certificata dal ponderoso catalogo della mostra, rafforzato a sua volta dai singoli volumi monografici delle partecipazioni nazionali, è pressoché impossibile dare conto di ogni singola sala e ogni singolo padiglione; sarebbe oltretutto un’operazione fuorviante. Ragion per cui ci limiteremo a poche segnalazioni, quelle che a nostro avviso riassumono meglio le intenzioni di “Freespace”. Esempio lampante in tal senso (menzionato pure dalle curatrici) è “Evacão”, poetica e leggiadra scultura in marmo di Álvaro Siza. Uno schermo bianco curvo collocato dinanzi a una panchina, curva anch’essa, suggerisce una nicchia che muta a seconda delle luci e delle ombre, invitando alla meditazione e al riposo.

Partiamo dal Padiglione della Santa Sede “Vatican Chapels” sull’Isola di San Giorgio Maggiore. Nel giardino dietro la chiesa del Palladio il curatore Francesco Dal Co ha radunato tredici architetti e ha chiesto loro di ri-pensare allo spazio religioso, partendo dalla celebre Cappella nel bosco di Gunnar Asplund a Stoccolma (1917-1920). Il risultato è stato sorprendente per l’eterogeneità delle tipologie e dei materiali usati. Spicca la cappella di Sir Norman Foster, una struttura triangolare costituita da elementi in legno che col passare del tempo sono stati avviluppati da piante rampicanti, rendendola ancora più affascinante. Scenografico l’altare che affaccia sul panorama della laguna e del Lido. A questo Padiglione appartiene anche il progetto di Eduardo Souto de Moura che si è aggiudicato il Leone d’Oro.

“Freespace” ha indagato anche il rapporto con il passato, affinché esso diventi lezione indispensabile per l’architettura che verrà. Così ad esempio è per il Padiglione del Lussemburgo, Paese dove il 92% dei terreni edificabili è in mano a privati. Le aree per costruire sono quindi esigue in rapporto alla disponibilità del piccolo Stato. Ecco allora l’idea di “The Architecture of the Common Ground”, ovvero fare di necessità virtù ispirandosi a soluzioni verso l’alto come i grattacieli, tratte dal patrimonio della storia dell’architettura contemporanea, come quelle proposte nel secolo scorso da Aldo Rossi e da Le Corbusier, solo per citarne due.

Una nazione dove i problemi di spazio non esistono è l’Argentina che all’Arsenale è presente con “Vertigo Horizontal”. Un’installazione che relaziona spazi geografici e luoghi dell’architettura. Un lungo parallelepipedo dalle pareti specchiate contiene e riflette una lingua di terra selvaggia con erba e piante autentiche che, se osservate dalle due aperture, si moltiplicano all’infinito, rimandando alle fertili pampas argentine, dove è la natura con la sua forza a disegnare lo spazio libero. Interessante notare come le opere proposte partano dal 1983, anno in cui l’Argentina ha ripristinato la democrazia.

Ai Giardini hanno colpito i Padiglioni dell’Olanda e della Svizzera. Il primo, progettato da Boberg nel 1912 e nel 1954 ridisegnato da Rietveld in stile neoplastico, è curato da Marina Otero Verzier e incoraggia creatività e responsabilità in risposta al dirompente impiego della tecnologia. Di primo acchito pare essere neutro nel suo colore tutto arancione. Tuttavia avvicinandosi, le pareti risultano essere formate da piccole ante. Alcune si possono aprire e svelano progetti e disegni, altre sono delle finestre che permettono di scoprire altri ambienti, come quello che ricostruisce perfettamente la stanza di John Lennon e Yoko Ono durante il bed-in del 1969 ad Amsterdam contro la Guerra in Vietnam.

Álvaro Siza, Evacão, 2017

Il Padiglione svizzero, premiato come migliore con il Leone d’Oro dalla giuria, è a tutti gli effetti una quinta teatrale che sembra essere stata allestita per uno spettacolo su “Alice nel Paese delle Meraviglie”. “Svizzera 240” è l’interno di un’abitazione famigliare qualsiasi dove gli spazi però sono irreali e ingannevoli. Si aprono porte ad altezza naturale che conducono ad ambienti minuscoli o, al contrario, enormi; le cucine hanno i piani di lavoro formato bambino o formato gigante, i pavimenti inclinati offrono una prospettiva distorta della casa, totalmente priva di mobilio. Il progetto inoltre vuole sensibilizzare sul recente fenomeno delle fotografie di interni di appartamenti non arredati sulle pubblicazioni specialistiche, immagini che distorcono la percezione e conducono a una «terra incognita».

Chiudiamo obbligatoriamente con il Padiglione Italia all’Arsenale, che è sempre uno dei più attesi. Lo ha curato Mario Cucinella, architetto della nuova generazione molto sensibile al problema del costruire in termini di sostenibilità, rispettando al tempo stesso le richieste della committenza e dei bisogni naturali dell’ambiente. Cucinella ha immaginato l’Italia non come Nazione ma come Arcipelago. Otto itinerari che valorizzano le aree lontane dalle metropoli come i borghi storici, i parchi, i cammini dove l’intervento dell’architettura contemporanea si sviluppa in un rapporto non invasivo col territorio. È Cucinella stesso a raccontarlo nel documentario proiettato subito all’inizio del percorso. Infine, a testimonianza del fatto che l’architettura è disciplina a più voci, nella seconda parte di “Arcipelago Italia”, sei giovani studi emergenti in collaborazione con Università e Istituzioni locali hanno lavorato su cinque progetti che sono interamente consultabili su grandi tavoli del tutto liberi e fruibili da chiunque.

«”Freespace” abbraccia la libertà di immaginare lo spazio libero di tempo e memoria, collegando passato, presente e futuro, costruendo sulle stratificazioni della nostra eredità culturale, legando l’arcaico e il contemporaneo», avevano dichiarato nel loro manifesto Yvonne Farrell e Shelley McNamara che hanno provato a riportare l’architettura al suo uso sociale. «Siamo convinti che tutti abbiano il diritto di beneficiare dell’architettura. Il suo ruolo, infatti, è di offrire un riparo ai nostri corpi e di elevare i nostri spiriti. Ciò che ci interessa è andare oltre ciò che è visibile, enfatizzando il ruolo dell’architettura nella coreografia della vita quotidiana». Una quotidianità che in questa Biennale finalmente si è respirata a pieni polmoni.

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