La notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 un’autobomba esplose a Firenze in via dei Georgofili, dietro alla Galleria degli Uffizi. Il barbaro attentato compiuto da Cosa Nostra uccise cinque persone e ne ferì una quarantina. La deflagrazione squarciò metaforicamente le coscienze dei fiorentini e degli italiani tutti, fisicamente gli edifici circostanti. Molte opere d’arte custodite agli Uffizi e nel Corridoio Vasariano andarono perdute per sempre, come ad esempio “L’adorazione dei pastori” di Gerrit Van Honthorst e due tele di Bartolomeo Manfredi.
Nei pressi di via dei Georgofili si trova anche il Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte che all’epoca ospitava la “Madonna di San Giorgio alla Costa”, una delle prime prove certe di Giotto, realizzata secondo la critica nel 1295, periodo in cui il maestro stava ultimando gli affreschi della basilica superiore di San Francesco ad Assisi. Dopo un accurato restauro a cura dell’Opificio delle Pietre Dure in questi giorni la tavola è stata accolta al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, tornando in tal modo visibile nel suo splendore, sebbene restino ancora evidenti le lesioni causate da una scheggia nella veste dell’angelo a sinistra dietro la Vergine: una cicatrice permanente a ricordare l’insensata violenza.
La storia della “Madonna di San Giorgio alla Costa” è tanto complessa quanto travagliata. Già Lorenzo Ghiberti nei suoi “Commentari” del 1452 la definiva opera di Giotto, informazione poi ripresa dal Vasari nella seconda edizione delle “Vite” del 1568. Nel Settecento venne snaturata in alcune sue parti per essere inserita in un altare barocco, sempre nella chiesa di San Giorgio alla Costa, perdendo così la sua peculiare definizione spaziale. Nel corso del XX secolo fu quindi trasferita al Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte dove si trovava quando ci fu l’attentato del 1993. Fu Richard Offner a riscoprirla negli anni ’30 del secolo scorso, attribuendola prima al Maestro di Santa Cecilia e vent’anni più tardi al Maestro della Croce di Santa Maria Novella. Oggi la critica è unanime nel considerarla opera giottesca, così come per la datazione che propende a situarla negli anni del ciclo di Assisi.
La tempera sul tavola (180×90 cm) raffigura Maria su un trono col Bambino, che tiene in mano un rotolo, in allusione all’identità di Gesù come Verbo divino. Dietro due angeli quasi perfettamente simmetrici osservano la scena. Lo sfondo è d’oro come vuole la tradizione di quegli anni, ma è l’unico elemento bizantino che rimane di un’opera altrimenti rivoluzionaria nel suo insieme. Il trono è addobbato con una stoffa a motivi geometrici e decorato da inserti musivi e da modanature di marmo rosa. Lo schienale del seggio su cui è assisa Maria è di chiara ispirazione gotica e rimanda al linguaggio architettonico di Arnolfo di Cambio che all’epoca stava lavorando a Firenze nel cantiere della cattedrale di Santa Maria del Fiore.
Nella sua nuova collocazione al Museo dell’Opera del Duomo, la “Madonna di San Giorgio alla Costa” dialoga proprio con Arnolfo nella Sala del Paradiso. Lo spazio espositivo ricostruisce la prima facciata di Santa Maria del Fiore, mai completata e smantellata nel 1587. Lì, di fronte alle porte del Battistero, sono state collocate molte delle statue nelle loro posizioni originali. Tra queste la “Madonna dagli occhi di vetro” di Arnolfo, coeva alla Madonna di Giotto. Un confronto serrato che permette uno sguardo analitico sulla situazione storico-artistica della città toscana alla fine del XIII secolo con l’affermarsi di Giotto, ormai lanciato verso una nuova concezione di rappresentazione dello spazio pittorico, e di Firenze che tra guerre, tumulti e pesti si preparava a gettare le basi del Rinascimento.