Mostra monografica di Antonio Ligabue a Napoli al Maschio Angioino


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autoritratto 1958, olio su tavola di faesite, 70×75 cm, Parma, collezione privata

Dopo il successo di  Palermo al Palazzo dei Normanni  e di Roma presso il Complesso del Vittoriano- Ala Brasini,  in  mostra a Napoli  nella Cappella Palatina del Castel Nuovo-Maschio Angioino sino al 28 gennaio 2018, oltre 80 opere di Ligabue, tra cui alcune sculture, disegni ed incisioni.  L’esposizione  “Antonio Ligabue” è stata promossa dal Comune di Napoli – Assessorato alla Cultura e al Turismo e con la collaborazione della Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri, con la curatela di Sandro Parmiggiani e Sergio Negri, con  l’organizzazione generale di C.O.R Creare Organizzare Realizzare.  «Giunge a Napoli Antonio Ligabue, l’esule svizzero, lo “scariolante” della Bassa reggiana, il pittore folle… La mostra che il Comune di Napoli ospita in Castel Nuovo è per la nostra città una grande occasione di conoscenza e di emozione: la conoscenza di un artista tra i più grandi del Novecento, l’emozione di un’espressione artistica refrattaria a ogni incasellamento, tanto lontana dalle accademie quanto ribelle a mode e tendenze», queste le parole del Sindaco di Napoli Luigi de Magistris.   La rassegna monografica “Antonio Ligabue” a Napoli,  intende far conoscere i diversi esiti dell’opera dell’artista, nel corso della sua attività ,dagli anni Venti al 1962, secondo uno schema  elaborato da Sergio Negri, intende rivisitare lo sviluppo cronologico  della produzione artistica e l’approfondimento dei temi ai quali si dedicò maggiormente quali: gli animali esotici e feroci impegnati nella lotta per la sopravvivenza, oltre a quelli domestici vicini all’uomo  e la vita nei campi. In mostra oltre ottanta opere, tra cui cinquantadue oli , sette sculture in bronzo, una sezione dedicata alla produzione grafica con otto disegni e quattro incisioni e, una sezione introduttiva sulla sua incredibile vicenda umana.  Antonio Ligabue, il folle genio della pittura naïf, nacque a Zurigo nel 1899 da Elisabetta Costa e da padre ignoto e venne registrato inizialmente come Antonio Costa, anche se successivamente assunse il nome del patrigno Laccabue, che Antonio trasformò successivamente in Ligabue,per l’odio nutrito nei confronti del patrigno ritenuto il responsabile della morte della madre e di 3 suoi fratelli.  Personaggio alquanto tormentato e singolare, Antonio soffriva di crisi nervose, tant’è che fu ricoverato più volte in un ospedale psichiatrico sia in Svizzera, dove trascorse l’infanzia e la giovinezza, che successivamente a Reggio Emilia per atti di autolesionismo. Espulso dalla Svizzera, nel 1919 fu condotto a Gualtieri , paese di origine dell’odiato patrigno, e  dopo un periodo difficile e di stenti presso l’ospizio dei mendicanti, nel 1928 incontrò Renato Marino Mazzacurati  che , comprendendo le sue qualità innate di artista, lo avvicinò alla pittura e gli insegnò a dipingere e ad usare i colori.  Come ha fatto notare da Sandro Parmiggiani: « Non avendo mai potuto avvalersi dell’esperienza diretta nei luoghi esotici – come del resto era avvenuto per Rousseau -, Ligabue fa ricorso alla fantasia visionaria e alla capacità trasfigurativa: basterebbe fare il confronto tra le immagini stilizzate in bianco e nero contenute nei manuali di animali che consulta, o le semplificazioni adottate nelle figurine Liebig, e la ricchezza di colori e di espressioni che lui ricrea e dispiega sulla tavola e sulla tela….[..] l’artista potrebbe essere assimilato, come capacità di evocazione visionaria , a uno scrittore , Emilio Salgari che ha incantanto e sedotto generazioni di lettori ….[..]…dando vita a personaggi,….[..] luoghi, persone, animali, vegetazioni…[..] Tra i molti animali selvaggi dipinti, disegnati, scolpiti e incisi da Ligabue, il leopardo e la tigre hanno un posto di assoluto rilievo: sempre lui ce ne restituisce lo splendore del corpo, la forza e l’astuzia dispiegati nel momento fatale dell’attacco a una preda, il magnetismo dello sguardo». Quella di Ligabue fu una travagliata odissea esistenziale, passata tra incomprensione,solitudine,  miseria, povertà, ospedali psichiatrici, manicomi,  che segnò il suo essere e il suo lavoro, portandolo  a vagare in modo irrequieto lungo le rive del fiume  Po. I contadini di Gualtieri lo chiamavano  il matto ( el matt)  o il  tedesco ( el Tedesch ), e solo nel 1948 raggiunse la notorietà. Mori’ nel ’65 e fu sepolto a Gualtieri dove riposa. Sulla lapide venne posta la maschera funebre in bronzo di Mozzali.

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