La montagna, nella storia dell’arte, è da sempre un riferimento importante, fin dai tempi remoti: ad esempio già in età preistorica le pitture rupestri e i graffiti sulle rocce si trovano spesso ad alte quote; con le prime civiltà, quando l’uomo riesce a sviluppare legami sociali complessi, la montagna viene in un certo senso adorata e simboleggiata mediante architetture imponenti dalle piramidi agli ziggurat, con forme geometriche perfette che risultano presenti in ogni parte del mondo.
La montagna, dunque, nella cultura sia antica sia moderna, risulta un luogo magico, fantastico, misterioso, fiabesco, persino divino e sacro a partire dall’Olimpo degli Dei greci fino a opere contemporanee come i romanzi La montagna incantata di Thomas Mann, Il Monte Analogo di René Daumal, Barnabo delle montagne di Dino Buzzati o film quali La montagna sacra di Jerzy Jodorowski, Il segreto del bosco vecchio di Ermanno Olmi e il recente Monte di Amir Naderi, per citare qualche esempio cardine della cultura scritta e audiovisiva degli ultimi decenni.
Anche in pittura, evocata quale sfondo inquietante o soggetto interlocutorio fin da Giotto, la monagna trova però un’interpretazione modernamente attuale solo da fine Ottocento con la nascita della pittura contemporanea, in concomitanza con il duplice atteggiamento della società borghese occidentale verso il mondo rurale alpino: da un lato le classi sia ricche sia povere che vivono in città e metropoli o in paesi di pianura manifestano un atteggiamento di superiorità verso le comunità montane ritenute retrograde e isolazioniste, dall’altro lato però quelle stesse classi, fuori dal lavoro, scoprono i lati positivi della vita alpina nei momenti di relax, di ferie, di villeggiatura per oggettivi motivi di salute, purezza, calma, genuinità.
Non a caso i primi artisti ad ‘riappropriarsi’ della montagna non solo quale elemento paesaggio ma soprattutto come modello culturale sono proprio i pittori: basti pensare che la rivoluzione dell’arte moderna verso il cubismo e l’astrattismo avviene con l’impressionista Paul Cézanne (1839-1906) che, già famoso, negli ultimissimi anni di vita, abbandona il proprio consueto stile per mettersi a studiare la montagna Sainte Victoire in Provenza, dipingendola sotto inedite prospettive tecniche che inizino a ribaltare la scala-valori andata consolidandosi dal Rinascimento fino allo stesso Impressionismo.
Tuttavia la montagna, prima di Cézanne, è oggetto privilegiato da parte del Divisionismo italiano, una corrente ancor oggi assai poco conosciuta all’estero, benché vanti un gran numero di pittori che, in quanto a stile, originalità, valore, reputazione, non hanno nulla da invidiare ai colleghi francesi e britannici, che dettano legge e fanno moda, da allora in poi, sui massa media e sul mercato internazionale, come pure tra la critica specializzata e le storie dell’arte.
I Divisionisti – Giuseppe Segantini in testa – amano la natura incontaminata e di conseguenza prediligono la pittura di paesaggio (spesso en plein air), di cui le vette e le catene dell’arco alpino costruiscono un fondamento estetico primario. Ma non è la montagna “fotografata” a confluire sulle tele (grandi e piccole) degli artisti piemontesi, lombardi, veneti: benché resti osservabile in forme più o meno realiste, diventa comunque pretesto per una sperimentazione coloristica che trova nel puntinismo tratteggiato il segno fondante di un’esperienza a sua volta persino mistica. Per Segantini tuttavia non si può parlare di misticismo trascendente o religioso, ma di una spiritualità anche pragmatica che, a sua volta, nel monte innevato, nelle valli splendenti, di verdissime conifere, nei montanari intenti a umili lavori, trova un soggetto attraverso cui provare cromatismi e lanciare messaggi, perché, come scrive, Anna Maria Brizio: “Subito, con Segantini, il divisionismo nasce con una forte spinta populista e progressista; con un implicito, anche quando non è apparentemente dichiarato, coinvolgimento nelle tensioni sociali contemporanee …”.
Su tale ragionamento va perciò inserita la questione del “simbolismo” di Segantini, da alcuni critici all’epoca e successivamente riletto quale scappatoia dalla realtà e come idealizzazione arcaica della natura montana, mentre iu realtà emerge un atteggiamento panteistico ben lontano dall’esercizio letterario o decorativo. Del resto Segantini nasce sulle Alpi trentini ad Arco e montanaro resta sono in fondo, filosoficamente rimasto, andando a Milano solo per aggiornamento è scegliendo poi definitivamente la Svizzera quale rifugio morale. L’amore per la pittura di paesaggio montano supera quindi le pastoie del Decadentismo (entro cui rimangono invischiati tanti pittori simbolisti), per farsi consustanziale alla propria natura come egli stesso confessa: “Io non credo di fare cosa che non sia strettamente e imperiosamente volontà del fato e stabilita nell’armonia generale dell’universo nel tempo e nello spazio”.
Resta però aperta la questione non solo segantiniani, ma estesa a tutti i pittori divisionisti di paesaggi alpini, del tentativo di conciliazione tra la scienza e il sogno, il mistero e la natura, impegno sociopolitico e la contemplazione estatica. Ma soltanto Segantini e pochi altri (come quelli individuati nella mostra da poco conclusasi ad Aosta Giovanni Segantini e i pittori della montagna, con catalogo Skira, e con artisti quali, in ordine alfabetico, Leonardo Bazzaro, Giuseppe Cominetti, Lorenzo Delleani, Fortunato Depero, Carlo Fornara, Vittore Grubicy, Cesare Maggi, Angelo Morbelli, Italo Mus, Pelizza da Volpedo, Gaetano Previati, Leonardo Roda e molti altri) hanno la forza, l’autorevolezza, la capacità di giungere a sintesi esteticamente compiute dipingendo le montagne, lasciando in conclusione una vivissima testimonianza, come nota Fortunato Bellonzi, “di una scelta suggerita dal carattere sacrale dell’esperienza artistica, occupando il vuoto lasciato dall’insufficienza delle religioni storiche”.