Il torinese Palazzo Chiablese è pronto per ospitare dal 4 ottobre prossimo al 14 gennaio 2018 la mostra “Sogno e colore” di Joan Miró (1893-1983), nei mesi scorsi già a Bologna. In esposizione centotrenta opere, la maggior parte delle quali oli di grande formato, prestate dalla Fundació Pilar y Joan Miró a Maiorca dove è custodita una collezione di oltre cinquemila pezzi che non comprende soltanto dipinti, sculture e disegni, ma anche i ferri del mestiere utilizzati dall’artista catalano.
Tra i capolavori che si potranno ammirare “Oiseaux”, “Femme au clair de lune” e “Femme dans la rue”, solo per citare i più noti. Testimonianze di un’arte che il collega Robert Motherwell nel 1959 aveva definito colma di sessualità, calda, spontanea e soprattutto intensa. Un’arte che di primo acchito può sembrare elementare, così caratterizzata da disegni lineari che per lui rappresentano un archetipo, l’uccello e la donna su tutti, ma che non lo è affatto. Tratti evidenti e mirabilmente sintetici strutturati in una sintassi che solo all’apparenza sembra frutto del caso, ma è studiata a tavolino; un linguaggio preciso e riconoscibile che, se compreso a fondo, conduce alla percezione del suo mondo interiore, contraddistinto dall’incontro «di fantasia e di controllo, di oculatezza e di generosità», per usare le parole di Gillo Dorfles.
C’è poi l’altro elemento basilare, ossia il colore che, senza ombra di dubbio, è quello catalano, mediterraneo. Un colore caldo, avvolgente che si trova fin dalle prime prove d’artista di chiara marca “fauve”: da “Prades” del 1917 ai nudi del 1918. Pitture particolareggiate, quasi fiamminghe nell’esasperazione dei dettagli, prima di passare alla svolta del 1923-1924 con l’avvicinamento al Surrealismo. È un attimo, perché dal 1925 il disegno diventa linea e scompare la figurazione esplicita e riconoscibile dei soggetti e degli sfondi ritratti all’interno del quadro.
Con il passare degli anni l’arte di Miró muta ulteriormente, ma mantiene inalterata la carica ironica e gioiosa che la contraddistingue. Vi è piena padronanza del gesto e della gamma cromatica, complice il trasferimento nell’isola di Maiorca, a Son Abrines, il “buen retiro” degli ultimi trent’anni di vita. Lì l’artista non si dedica solamente alla pittura, ma allarga la sua tecnica alla scultura e alla ceramica. Quest’ultima gli consente di confrontarsi con la terra e con il fuoco: «quando si lavora la ceramica si doma il fuoco». Proprio il legame con la terra catalana e con Maiorca è il fulcro della mostra torinese.
Infine c’è il sogno, che assieme al colore, dà il titolo alla mostra. Sarebbe più corretto parlare di inconscio nel caso di Miró, ma come ci insegna la psicanalisi e, di rimando, il Surrealismo che è la sua traduzione in arte, i due concetti sono uno complementare all’altro. Il sogno, fatto di simboli, qui si rivela senza alcuna censura. Il significato delle immagini dipinte è quello percepito dalla coscienza e porta a un processo cognitivo dove il mito si palesa con un meccanismo irrazionale. In pratica Miró esorcizza i miti dell’inconscio e li rende innocui ai nostri occhi. Per questo motivo dinnanzi a un suo quadro la sensazione che si prova è di pacatezza e di rilassamento. «La profondità dell’inconscio si risolve totalmente nella superficie dell’immagine visiva. Così Miró dimostra che il creare è un libero gioco» analizza Argan.
“Miró! Sogno e colore” è organizzata dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, dai Musei Reali di Torino e dal Gruppo Arthemisia, con il patrocinio e il supporto di Regione Piemonte e Città di Torino, in collaborazione con Fundació Pilar i Joan Miró a Maiorca e vede come curatore scientifico Pilar Baos Rodríguez.