Arman, un “bricoleur” che ha vissuto di raccolta


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Poubelle Ménagére, 1960
Accumulazione di giocattoli, fumetti e carte in scatola di legno con coperchio di vetro (Refuse inside glass container)
65 x 40 x 10 cm (25,5 x 15,8 x 4 in)

Proseguirà fino al 23 luglio la mostra “Arman, 1954-2005”, inaugurata negli spazi del romano Palazzo Cipolla il 5 maggio. A curarla Germano Celant. In esposizione circa settanta opere che ripercorrono la poetica dell’artista francese naturalizzato americano dalla metà degli anni ’50 fino ai primi anni del 2000. Un percorso che include pittura, scultura, assemblage, ready-made, disegno e azione.

Arman (vero nome Armand Pierre Fernandez, nato a Nizza il 17 novembre 1928 e morto a New York il 22 ottobre 2005) inizia praticando la pittura in maniera tradizionale, ma se ne discosta quasi subito. Appartengono alla prima attività i “Timbri”, replicati in serie su carta, e le “Allures”, ovvero tracce e impronte. All’alba degli anni ’60 Arman aderisce al Nouveau Réalisme, la corrente di matrice dadaista, nata a Parigi come risposta al New Dada e alla Pop Art. A firmare il manifesto il 27 ottobre del 1960 nello studio di Yves Klein, Pierre Restany, teorico del gruppo che comprende, tra gli altri, César, Martial Raysse, Daniel Spoerri, Jean Tinguely, Mimmo Rotella, oltre allo stesso Arman.

«I “nuovi realisti” hanno preso coscienza della loro singolarità collettiva. Nuovo Realismo = nuovo approccio percettivo al reale», scrive Restany. Il procedimento da cui muovono è per appropriazione, considerano cioè di loro ispirazione l’intero universo urbano e tutti i suoi frammenti, basta che stimolino l’esperienza artistica. Il momento spartiacque è la mostra “The art of assemblage” del 1961 al MoMA di New York, in cui il Nouveau Réalisme si confronta con le tendenze americane (Johns, Rauschenberg, Chamberlain, Stella etc).

È in questo periodo che Arman perfeziona le “Poubelles”, cianfrusaglie premute dentro una scatola di avanzi, e in seguito le “Accumulations” che mettono insieme oggetti analoghi come ad esempio dentiere, maschere a gas, supposte, bollitori, pennelli, chiavi inglesi e via dicendo. Qualcuno ha avanzato l’idea che tale metodo non fosse del tutto originale, ma già lo avesse esperito Kurt Schwitters. Arman lo riconobbe senza alcun problema, ma tenne a specificare che «Schwitters fu sempre sensibile al senso letterario degli elementi prescelti. Io affermo invece che l’espressività degli avanzi, degli oggetti di scarto, possiede un valore in sé, direttamente, senza quell’intenzione di ricomposizione estetica che secondo me li oblitera e li rende simili ai colori di una tavolozza».

Altrove, come nelle “Colères” o “Rages”, o nei più recenti “Sandwich Combo”, della fine dei novanta, Arman esplora l’annullamento della funzionalità di un oggetto attraverso la sua scomposizione o distruzione. L’atto di rendere disfunzionale uno strumento d’uso può avvenire sia mediante la sua demolizione sia tramite interventi di ibridazione tra due soggetti – come un frigorifero e un carrello della spesa, “Du Producteur au Consommateur” (1997), o un pianoforte e un letto a baldacchino, “Eine Klein Nacht Musik” (2000).

Ecco allora che con la mostra di Palazzo Cipolla, l’opera di Arman, che torna in Italia con una retrospettiva a distanza di quindici anni, viene restituita nella sua pienezza. L’artista con la sua lente d’ingrandimento rivela il comportamento della società in cui vive, mettendola a nudo nei suoi nervi più scoperti. Insomma, come già sosteneva Argan quarant’anni fa, per Arman la civiltà industriale o dei consumi riconduce la società a un livello preistorico, fa dell’uomo civilizzato un primitivo, un selvaggio, un “bricoleur” che vive di raccolta.

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