Viva Arte Viva. Alla Biennale veneziana di Christine Macel


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Venezia, Giardini della Biennale

I “relicta” giganteschi di Damien Hirst, presenti a Palazzo Grassi & Punta della Dogana in Venezia, sono forse la fine ultima dell’arte nel senso che già in nuce vi è tutto il lavorio artistico di Salvador Dalì qui da Hist riprodotto in forma gigante e questo è il probabile segno ultimo di un’arte che non ha più niente da dire. Se i dinosauri furono un periodo antesignano della terra ora l’umano va verso la sua fine con un’arte dinosauriana, costretta poi a perire per il suo gigantismo. Al seguito, entra, sempre a Venezia, l’operare curatoriale della Christine Macel che con una Biennale “riparatrice” tenta di sistemare le cose riprendendo artisti dimenticati dalla storia, ma ancora attivi sull’orizzonte dell’arte. Ed ecco il Leone d’Oro a Carolee Schneemann che del proprio corpo ha fatto segno dell’arte e nell’arte con il suo dondolare sulle tele lasciando tracce molto vicine alle mutazioni delle pelli dei serpenti con i quali ha spesso giocato facendoci rabbrividire per il significato religioso e satanico, ma anche per il ribrezzo fisico che veniva consumato con le sue performances. L’esposizione del corpo, dei suoi lasciti: fluidi o bave, erano una condizione necessaria all’artista per affermare la sua centralità liberatoria, per affrancarsi dal subdolo e adamitico maschilismo.

Ma la Macel nella sua “riparazione storica” usa categorie non storiche, bensì d’invenzione, dove ognuno dei nove capitoli o famiglie di artisti della Mostra sua “costituisce di per sé un Padiglione o un Trans-padiglione, in senso Transnazionale, che riprende la storica suddivisione della Biennale in padiglioni….dal Padiglione degli artisti e dei libri al Padiglione del tempo e dell’infinito” questi nove episodi propongono un racconto spesso discorsivo e talvolta paradossale, con delle deviazioni che riflettono (a suo dire) la complessità del mondo, la molteplicità delle posizioni e la varietà delle pratiche.

Ed essendo questa una Biennale umanistica dopo quella universal antropologica di Massimiliano Gioni che ci poneva un senso di colpa oscuro grazie al junghiano inconscio collettivo, passando per la sua risoluzione-rivoluzione di un’arte politica e sociale di riscatto di Enwezor Okwui, questa di Christine Macel, in attesa di essere vista, anche perché oggi i nomi invitati non sono mai una promessa di garanzia dato che mentre nel passato la cifra di ogni artista era il suo segno di riconoscimento, oggi gli artisti “tradiscono” la propria continuità con progetti del momento in cerca di cogliere il sentimento dell’epoca che essendo liquida, come sosteneva Baumann, prende la forma di ogni contenitore artistico. Quindi ai posteri l’ardua sentenza, per ora sappiamo che l’intenzione è quella di riparare ai torti dei dimenticati a coloro ai quali, come scriveva Merleau-Ponty, la storia grande ha depredato sia l’opera che la vita.

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