Non si dice certo una novità quando si afferma che Venezia è una città unica nel suo genere, una «anomalia urbanistica», come è stata efficacemente definita. Visitarla in questo periodo però ha un fascino ancor più ipnotico e magnetico. In attesa che si svegli per il Carnevale, persi nella nebbia della laguna, pochi turisti si aggirano per i calli, le salizzade, le rughe, i porteghi e i sotoporteghi. Siamo alla Fondazione Querini Stampalia, campo di Santa Maria Formosa, sestiere Castello. Lì vicino è d’obbligo una visita al nascosto Palazzo Grimani, un piccolo gioiello di inizio Cinquecento che la nobile famiglia ha voluto diventasse una straordinaria parentesi romana nel regno della Serenissima.
Biblioteca, museo e area per esposizioni temporanee: è questa la struttura verticale dell’edificio, dimora dei Querini Stampalia fin dal XVI secolo. L’omonima Fondazione fu voluta nel 1868 dal conte Giovanni che moriva l’anno seguente senza lasciare eredi. Per questo motivo decise per un’ingente donazione alla città. La Biblioteca, meta preferita dagli studenti veneziani, custodisce oltre 370.000 volumi. Il nucleo più antico comprende manoscritti, incunaboli, cinquecentine, atlanti e carte geografiche. Il museo, al piano nobile del palazzo, è un autentico viaggio nel passato, una stimolante immersione nella vita quotidiana di una famiglia patrizia durante la massima espansione del governo protetto da San Marco. Tra i capolavori esposti vale la pena citare “La presentazione al Tempio” (1460 circa), tavola giovanile di Giovanni Bellini che in questo caso si ispirò al soggetto analogo del Mantegna (1455). Ma poi troviamo anche Palma il Vecchio, Bernardo Strozzi, Giambattista Tiepolo…
L’altro motivo di interesse di Palazzo Querini Stampalia risiede senza dubbio nel piano terra, restaurato e riprogettato da Carlo Scarpa al quale – tra le priorità – era stato chiesto di ovviare al problema dell’acqua alta. I lavori si conclusero nel 1963 e toccarono quattro aree: il nuovo ponte d’accesso al Palazzo, l’entrata con le barriere di difesa dall’alta marea, il portego progettato per fornire uno spazio da destinare a mostre e conferenze e il giardino. I blocchi in pietra d’Istria sono inseriti in maniera armonica nel contesto e ridisegnano completamente la luce e gli spazi. Il genio di Scarpa però non si ferma qui. L’altra brillante intuizione è trasformare l’acqua da problema in fonte di ispirazione. Scrive il suo allievo Sergio Los che «invece che impedirne l’entrata, Scarpa si preoccupa di farla defluire facilmente, e di consentire l’uso dell’edificio sopraelevando opportunamente i pavimenti interessati alla sua presenza», questo grazie anche all’utilizzo di materiali appropriati. Una soluzione che il maestro riprenderà con esiti diversi nel negozio Olivetti in piazza San Marco. Alla Querini Stampalia il respiro di Scarpa si stempera nell’altro illustre intervento, ovvero quello di Mario Botta che senza troppo invadere o stravolgere, con pudore, ha realizzato in anni più recenti la nuova zona di servizi, sviluppati attorno a una corte coperta.
Resta l’area dedicata alle esposizioni temporanee. In questo momento la Fondazione ospita fino al 5 marzo la mostra di Titina Maselli (1924-2005), curata da Chiara Bertola. Personaggio poco conosciuto, Titina Maselli è stata un’artista “sui generis” che ha sempre rifiutato le etichette, che aveva come unica risposta a chi le chiedeva perché facesse arte, «perché è l’unica giustificazione». Trenta opere ripercorrono la sua poetica, istantanea, nel senso che la sua volontà era quella che i suoi quadri si capissero subito, al primo sguardo, che avessero la chiarezza delle scene di Charlie Chaplin.
Nasce e cresce a Roma Titina Maselli, ma fin dal principio non è attratta dallo splendore monumentale della città eterna, bensì da quello moderno, delle periferie, lo stesso amato da Pasolini. Ed è proprio quello l’ambiente che la ispira: le auto, i tram, i camion, i cavi elettrici, i neon, i bar, lo stadio con i suoi eroi (i calciatori), il ring con i suoi pugili. Colti nel culmine del gesto atletico, spesso presentato in più attimi, quasi la tela fosse scaturita da più fotogrammi sovrapposti. Snobbato ingiustamente dalla critica, qui il lavoro di Titina Maselli, una sintesi linguistica che ricorda la lezione futurista e assimila senza traumi la Pop Art, riacquista la dignità che gli era dovuta.