Uno degli aspetti più nebulosi nel mondo dell’arte è sicuramente quello che riguarda il rapporto tra critici e curatori, non solo in seno al concreto svolgersi delle attività, ma anche inerente una teorizzazione stringente riguardo compiti e competenze dell’una e dell’altra figura. Sovente la tentazione è di sfondare gli argini e invadere il campo altrui, spesso ciò capita e non di rado con risultati piacevolmente sorprendenti.
In un recente articolo firmato da Renato Barilli, si tenta di porre la figura del curatore in pessima luce o di relegarla in una posizione secondaria rispetto ad altro (facilmente si può intuire a cosa). A partire dall’azzardata ironia dell’incipit che associa la figura del curatore a due ambiti differenti, quello culturale e quello amministrativo, ritengo utile precisare che, come dicevano i latini, nomina sunt consequentia rerum e quindi, umorismo a parte, chi fa il curatore lo è, ma lo è anche chi (suo malgrado?) è critico e si avventura a fare il curatore affiancando le due attività. Per questo, in molti casi in cui ciò avviene sistematicamente, troverei più corretto che ci si presentasse come “critico e curatore”.
Il critico non necessariamente ha bisogno del supporto espositivo (perché nello specifico è di questo che stiamo parlando) e, allo stesso modo, il curatore non necessita del supporto critico. Che i due aspetti possano essere complementari è implicito, ma presupporre la superiorità dell’uno all’altro mi pare eccessivo e per certi versi rispecchia quel ritorno costante di elitarismo accademico nei confronti del concreto operare.
Diversa è la questione riguardante le singole scelte dei curatori che si possono condividere o meno, ma ciò non riguarda l’attività e le competenze dell’uno o dell’altro: il conformismo è un brutto male e la ricerca dell’approvazione da parte della propria comunità, magari dai decani della stessa, è un qualcosa che frena la ricerca e lo sviluppo, inchiodandoci a quei “bei tempi andati” in cui “si stava meglio anche se si stava peggio”… Sì, ma per la nostalgia della gioventù di chi oggi giudica, non perché fosse realmente meglio.