Paradosso De Dominicis


Stampa

Calamita cosmica

Calamita cosmica

Ci sono personaggi che è facile raccontare, altri no. Gino De Dominicis appartiene alla seconda categoria. Uomo schivo, quasi al limite dell’irraggiungibile, ha sempre spiazzato chiunque con le sue opere che parlano assai meno di lui, cioè dell’artista. Innanzitutto c’è da dire che non è catalogabile in correnti o movimenti come invece è accaduto per la maggior parte dei suoi colleghi. Secondo Renato Barilli i suoi inizi possono essere collegati all’Arte povera, giacché egli esaspera l’aspetto concettuale che gli è proprio, ama rivolgersi a concetti paradossali e assurdi, cercando di dar loro un massimo di efficacia fisica e anche di credibilità. Per De Dominicis è indifferente passare da un mezzo all’altro, dai più rarefatti e mentali, ai più corposi e reali, ai brevi sketch filmati e ripresi con la telecamera come in uno spot pubblicitario. Gillo Dorfles al contrario non gli ha mai dato peso: «esibizioni di casi patologici» afferma riferendosi alla “Seconda soluzione d’Immortalità (L’Universo è Immobile)”, installazione presentata alla Biennale di Venezia del 1972 in cui un giovane affetto dalla sindrome di Down è seduto a osservare tre lavori dell’artista precedentemente esposti.

Gino De Dominicis o lo si ama o lo si odia. Non ci sono mezze misure. Lo si odia se si persegue l’interpretazione crociana di arte come intuizione lirica della natura perché di lirico le sue opere non hanno proprio nulla. Lo si ama, e se non lo si ama lo si accetta, se invece lo si analizza alla stregua di una fenomenologica volontà d’intenzione, cioè l’attitudine del pensiero artistico ad avere sempre un contenuto al di là dei mezzi adoperati per renderlo sensibile. In tal senso De Dominicis può essere avvicinato al concettuale che peraltro respinse senza mezze misura, come testimonia la “Mozzarella in carrozza”, beffarda installazione in cui il bianco latticino è collocato sul sedile posteriore di una carrozza nera. O come una delle sue tante frasi provocatorie: «Il termine “arte concettuale”, di origine americana, in Italia è molto piaciuto forse perché ricorda nomi di persona molto diffusi come Concetta, Concezione, Concettina ecc…; e viene di continuo usato stupidamente per etichettare tutto ciò che in arte non è immediatamente riconoscibile».

Proprio al fenomeno nel senso filosofico del termine, ovvero ciò che appare e si manifesta attraverso ai sensi, bisogna accostarsi per comprendere la ricerca dell’artista. Al contrario non lo si capirà mai se ci si accanisce a volerlo per forza di cose inserire in un movimento collettivo. De Dominicis, che ha fatto di tutto affinché ciò non accadesse, rappresenta più di altri l’esempio dell’opera d’arte vivente. Individualista fino all’eccesso, non appartiene al tempo che gli è dato vivere. Il suo parallelo in ambito teatrale è Carmelo Bene con il quale condivide diverse assonanze. Come lui scardina un linguaggio che si crede moderno ma che agli occhi di chi è in grado di spingersi oltre è desueto. Entrambi appartengono a quella categoria di uomini cari a Nietzsche. Il loro pensiero è radicato nella Storia, non nell’immediato. Contestualmente per De Dominicis nel periodo dei Sumeri e nell’epopea di Gilgamesh e nella mitologia indiana.

De Dominicis non voleva avere scheletri nell’armadio, infatti li ha messi sulla pubblica piazza. A cominciare da “Il tempo, lo sbaglio, lo spazio”, scultura del 1969 di uno scheletro umano disteso coi pattini a rotelle che tiene al guinzaglio uno scheletro di cane. Il messaggio è chiaro: l’uomo è morto anche quando è vivo, quando cioè può divertirsi nel cosiddetto tempo libero praticando le attività che lo divertono di più come portare a spasso il cane. I pattini, strumento che serve a velocizzare l’andatura, significano che è uno sbaglio accelerare la corsa nel tempo. Così facendo non ci accorgiamo nemmeno di esistere. Non tanto “vanitas” quanto “memento mori”. Negazione assoluta delle avanguardie, Futurismo in primis.

Teschio dal naso lungo

Teschio dal naso lungo

Per De Dominicis l’uomo per avere piena consapevolezza di sé dovrebbe cristallizzarsi nel tempo, operazione impossibile da compiersi se non una volta morti, come ammoniscono le nude ossa dell’opera in questione. Elemento, quest’ultimo che ritorna nella “Calamita cosmica”, scheletro di 24 metri che al posto del naso ha una sorta di becco d’uccello e che con l’ultima falange del dito medio della mano destra regge un’asta dorata, la calamita appunto. Achille Bonito Oliva in occasione della mostra monografica da lui curata nel 2010 al MAXXI di Roma la mise all’entrata, proprio sotto i “pilotis” di Zaha Hadid. ABO, che detto per inciso non avrebbe disdegnato di accoglierlo nella sua Transavanguardia, nell’aggiunta a “L’arte moderna” di Giulio Carlo Argan scrisse di lui che «propone una nozione di immortalità come valore di bellezza estetica, attraverso le dualità specifiche del linguaggio dell’arte, affidabile all’istantaneità dell’immagine fissata nello spazio della pittura e della scultura sottratta al flusso del tempo in una sintonia con l’antica cultura sumera capace di superare la contrapposizione oriente-occidente, astrazione-figurazione, geometria-decorazione». Non solo fuori dal tempo quindi, ma fuori anche dalla geografia, dallo stile e a maggior ragione dalle mode. De Dominicis, alfiere dell’incomunicabilità, arrivò a considerare pure lo spettatore superfluo rispetto all’opera, al pari di Carmelo Bene che auspicava un muro al posto della quarta parete cosicché il pubblico fosse impossibilitato a fruire di ciò che avveniva sul palcoscenico. Gino De Dominicis, «più antico di un artista egiziano» come ebbe a definirsi, ribalta il concetto elementare, dato come postulato, che è il pubblico ad esporsi all’arte e non viceversa. Il suo paradosso è proprio questo, semplice eppure terribilmente complesso, che si può riassumere con queste parole: «Non è mai esistito un “mondo dell’arte”, ma solo opere d’arte nel mondo».

Share Button

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *