Qualche riflessione sui rapporti tra pittura e jazz


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Vassily Kandinsky, Composition 8, 1923, olio su tela, cm 140 x 201, ©Museo Guggenheim, New York

Vassily Kandinsky, Composition 8, 1923, olio su tela, cm 140 x 201, ©Museo Guggenheim, New York

“Ut pictura poësis” è stato in passato uno dei problemi che più ha arrovellato le menti di artisti, filosofi e poeti. Da Leonardo a Diderot, da Lessing a Baudelaire sono stati in molti a tentare di sciogliere questo intricato nodo gordiano per stabilire il primato di una disciplina rispetto all’altra. Nel corso del Novecento la questione non è del tutto sparita, anzi, si è forse complicata ulteriormente. Le mai sopite discussioni attorno alla corrispondenza tra le arti e soprattutto sulla cosiddetta opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk) hanno favorito un fecondo scambio intellettuale che ha arricchito il panorama artistico di opinioni quanto mai autorevoli. Il quadro generale, durante i primi anni del XX secolo, subì dei rilevanti cambiamenti di significato che portarono alla decadenza della rappresentazione figurativa, giacché è nell’astrazione che si osserva meglio questo delicato passaggio. I giovani artisti si preoccupavano di indagare la struttura materiale del quadro stesso, ponendo in primo piano l’autonomia della creazione, a differenza del passato quando la gerarchia della composizione prevedeva anzitutto la scelta di un buon soggetto. Si stava compiendo il passo decisivo che dalla figurazione porterà all’astrazione. Proprio quest’ultima ha avuto l’indubbio merito di trattare il suono esattamente al pari del colore o del disegno.

«Nella nostra epoca molte arti imparano l’una dall’altra e spesso hanno gli stessi scopi» affermò con convinzione Kandinsky nel suo manifesto “Lo spirituale nell’arte”. In quel caso l’obiettivo verso cui tendeva l’opera d’arte era il diretto contatto con l’anima perché solo così si poteva formare la vera arte: principio di necessità interiore la chiamava l’artista russo. La rivoluzione deve partire da ognuno di noi, dunque è individuale ancor prima che collettiva, deve provenire da dentro, non da fuori. Se così non fosse si continuerebbe a incorrere nei soliti errori di forma e l’arte sarebbe in perpetuo una copia del passato. Per Kandinsky soltanto tramite la musica era possibile rompere definitivamente i ponti con l’immagine e giungere all’astrazione, massima espressione dell’anima: «La musica, che è indipendente dalla natura, non ha bisogno di prendere a prestito forme esteriori per il suo linguaggio. La pittura è invece ancora quasi completamente legata a forme naturali, a forme tratte della natura». Nell’Almanacco del Cavaliere Azzurro si trovano molti contributi che approfondiscono il rapporto tra arte e musica. Celebre quello di Schönberg, l’inventore della dodecafonia. Anche in un’opera lirica degli stessi anni, il “Prometeo” di Skrjabin, la musica è quasi inseparabile dall’accordo dei colori (il suono giallo, ovvero la composizione scenica di Kandinsky ad esempio). E, in ultimo, non a caso molti quadri di Kandinsky furono intitolati “Improvvisazioni”, “Impressioni” e “Composizioni”, mutuando la terminologia dal lessico musicale. Ricordiamo inoltre che l’improvvisazione è uno dei capisaldi della tecnica jazzistica, sebbene in questo caso i due fenomeni non possono in alcun modo essere comparati, almeno dal punto di vista storico.

Contemporaneamente al Blue Reiter, in Italia i futuristi si muovevano sullo stesso terreno. Sono entrambi del 1911 il “Manifesto dei musicisti futuristi” e “La musica futurista-Manifesto tecnico” firmati tra gli altri da Francesco Balilla Pratella e Luigi Russolo, sotto la spinta dell’instancabile Marinetti. Anche in questo caso i principi elencati dettavano un radicale taglio col passato, alla stregua degli altri manifesti del futurismo: «Disertate i conservatori, i licei e le accademie, e determinatene la chiusura; si vorrà certamente provvedere alle necessità dell’esperienza, col dare agli studi musicali un carattere di libertà assoluta» è il punto cardine da cui si muovono tutte le sperimentazioni del movimento d’avanguardia. Tra Pratella e Russolo quello che resta più ancorato alla tradizione è senza dubbio il primo il quale comunque durante le sue esibizioni provocatorie non mancò di scatenare veementi polemiche tra pubblico e artisti, alcune delle quali finite in vere e proprie risse.

Luigi Russolo invece, guardando a Boccioni, costituì delle interessanti equivalenze tra il visivo e il sonoro, sebbene nel suo caso sarebbe più giusto parlare di rumori anziché di suoni. Nel 1913 l’artista pubblicò “L’arte dei rumori” secondo cui la musica doveva essere fatta prevalentemente di rumori, non di suoni armonici. Si tratta di rumori della vita quotidiana, mescolati assieme disordinatamente, come in un’improvvisazione (vengono simulati ululati, rombi, stropiccii, gorgoglii, sibili e ronzii), un po’ come il Palazzeschi di Lasciatemi divertire! Schiacciato da un ambiente musicale retrivo, poco aperto alle innovazioni, tra tutti i volti noti del Futurismo, Russolo si trasferì a Parigi, dove poté continuare indisturbato le sue ricerche nel campo della musica e poté continuare a costruire i suoi stravaganti strumenti.

Sia per Kandinsky che per i futuristi però il discorso sul jazz, inteso come genere autonomo, interessava ben poco, o meglio, era quasi del tutto estraneo se consideriamo che negli stessi anni in America esso stava nascendo. Quindi è ben difficile che un fenomeno ancora troppo circoscritto a un contesto limitato avesse varcato con facilità i confini giungendo sino in Europa. Il primo grande momento di confronto tra le due culture artistiche avvenne nel 1913 a New York durante l’Armory Show, epocale mostra che diede il via agli influssi europei nel Nuovo Mondo. Prima i due grandi poli culturali viaggiavano su binari paralleli che solo raramente si erano incontrati. Sembra allora che volendo trovare dei punti di contatto tra le avanguardie storiche e il jazz si sia destinati a perdere fin dall’inizio. Ciò è vero solo in parte, ovvero lo è se ci si ferma esclusivamente al primo ventennio del XX secolo. Dagli anni ’20 in poi infatti si intensificano gli scambi tra America ed Europa. È un dialogo stimolante che a posteriori è stato giudicato positivo più per l’America che ha avuto modo di conoscere la poetica di movimenti come l’Espressionismo e l’Astrattismo. Viceversa il contributo per l’Europa non è mai stato indagato a fondo come invece dovrebbe. Tra i doni giunti dall’altra sponda dell’Atlantico uno dei più graditi fu senz’altro il jazz che nel frattempo aveva bruciato tutte le tappe consolidandosi come un genere di primo livello, esemplificativo della cultura afroamericana.

In Italia vogliamo citare due artisti che dagli anni ’50 in avanti analizzarono il rapporto tra pittura e jazz. Il primo è Alberto Sughi, certamente uno dei più importanti pittori usciti dal complesso dibattito del dopoguerra, quello fra realismo e astrazione. Egli, con grande coerenza, ha portato avanti la sua ricerca collocandosi come punto di riferimento per le nuove esperienze della pittura europea attenta alla figurazione, per ciò che concerne l’Informale e per la pittura statunitense per l’Espressionismo Astratto. Sughi a Roma è ospite di Renato Guttuso, ma diversamente da lui non sceglie la strada del realismo, come tanti altri giovani legati alla sinistra, bensì una via diversa, chiara ormai nel 1958 quando due quadri, un interno di cinema e un grande dipinto con una veduta di città, propongono una visione più intima del quotidiano. «Sughi lascia ogni forma di espressionismo Otto Dix, e inventa un racconto nuovo dove domina l’ombra da cui escono personaggi dai volti non ben definiti, in uno spazio senza misura, fuori del tempo, senza eventi»: così lo fotografa bene Quintavalle.

L’altro protagonista è Giancarlo Cazzaniga. Questo artista nativo di Monza, formatosi in quella fucina culturale che aveva come ritrovo il Bar Jamaica nel quartiere di Brera a Milano in compagnia di Lucio Fontana, Piero Manzoni e Ugo Mulas, ha esordito negli anni ’50, aderendo al clima del Realismo Esistenziale. È bene specificare che parliamo di clima e non di movimento, assimilabile al pensiero di Sartre e Camus. Questo filone di pensiero riportava l’attenzione sull’uomo, sul suo destino quotidiano, sulle sue emozioni e sentimenti di fronte al peso crescente di alienazioni dovute ai sistemi sociali dominanti, al montare delle mode e degli opportunismi culturali. Di Cazzaniga ricordiamo la serie dei Jazz-man. Chi ha colto appieno il suo messaggio è stato Giovanni Cerri che ha individuato come Cazzaniga abbia illustrato in maniera esauriente le vicende di Milano del dopoguerra e subito dopo della ricostruzione. «La nuova musica di oltreoceano, il jazz appunto, sbarcato in Italia alla fine del conflitto, diventerà per Cazzaniga il filo conduttore di tutto il suo lungo cammino artistico, fino ai giorni nostri. Il jazz e, di conseguenza, i suoi leggendari interpreti: Chet Baker, Gerry Mulligan, John Levis, Dizzy Gillespie per citare i musicisti a lui più cari. Qui, del jazz, noi ne percepiamo i suoni, i silenzi, le dissonanze, le voci… così come siamo colpiti dagli improvvisi lampi e dai baluginanti lucori, traduzioni paritetiche dello sfavillio metallico degli strumenti. Sono composizioni serrate, essenziali, nelle quali rivestono importanza le omogenee cromie degli sfondi; ombrose e brune campiture, sapientemente stese sulla tramatura della tela, impressa ma non soffocata, partecipe anch’essa alla vita del quadro.»

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