La mia Biennale


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Ho scelto questo titolo “La mia Biennale”non tanto perché avrei voluto che fosse secondo i miei desideri, quanto per riassumere ciò che mi è rimasto in mente di questa Biennale allestita da Adriano Pedrosa: “Stranieri ovunque” (“e Comunque”, aggiungerei). Cosa mi ha lasciato, quale impressione ho ricevuto dalla visita ai padiglioni dei Giardini e dalla prima parte della mostra del Direttore. Molto era già stato sdoganato da Jean-Hubert Martin nel 1989 con la sua mostra

De Pisis e Louis Fratino a confronto

MAGICIENS DE LATERRE. La pittura africana, quella aborigena, il discorso antropologico della scultura, la dimensione etnico sociale qui spostata sulla comunità LGBTQ+ e quindi più sul versante della dimensione sociale, checché se ne dica è una dimensione di nicchia, la quale giustamente va presa in considerazione senza stravolgimenti nella priorità dei diritti di tutti.

Il Tentativo di Louis Fratino (statunitense) messo a fianco, più che a confronto, con De Pisis, lascia perplessi. Sfugge il nesso omosessuale della loro opera, mentre diventa preponderante l’elemento artistico, più che estetico. De Pisis è poetico, ma debole per la dimensione del quadro, l’altro è preponderante, scultoreo, quasi dentro a un “ritorno all’ordine” della pittura degli anni Trenta. Per certi versi molto vicino al Realismo Magico di Otto Dix e Grosz. In altre sale vi sono diverse opere astratte messe a mo’ di quadreria, in un’altra figurativa di ritratti per intero e a mezzo busto oppure in gruppo. Queste opere tendono a definire la condizione della pittura degli anni ’60, ’70, benché gli stili siano diversi. Nella sala del NUCLEO STORICO-ASTRAZIONI assistiamo ad esperienze che da noi si sono consumate fra le due guerre con l’astrattismo geometrico dei Manlio Rho, Atanasio Soldati e poi dal gruppo MAC. Pertanto, davano un ché di dejà vu. Altre sale vedono una pittura etnico-naif come quella Aloise, Sénèque Obin, Philomé Obin, Paula Nico, interessante appunto perché legata ad una cultura particolare. Qui avrei preferito che il direttore Pedrosa avesse creato dei Focus ad esempio sul Tropicalismo Brasiliano, sul Cinetismo nato in America Latina coi Rafael Soto, H. Garcia-Rossi, J. Le Parc, indicando dei focolai di sviluppo di movimenti che influenzeranno in seguito l’arte contemporanea. (Il Venezuela espone uno di questi artisti cinetico-geometrici: Juvenal Ravelo). Questo quindi, più che una platea di pittori che assurgono alla ribalta per la loro prima volta della Biennale. Ci sono pure qui, in Europa, artisti importanti e sconosciuti da scoprire o riscoprire; il mondo è troppo vasto per essere rappresentato solo da singolarità artistiche o sessuali. Ho in mente Siamo Foresta alla Triennale di Milano di quest’anno: una quindicina di artisti, quasi tutti brasiliani, che descrivono la foresta amazzonica con pittura e installazioni. Ecco, lì l’esperienza artistica ti connetteva con un altro mondo: la Foresta, e potevi annusarla come vederla nelle sue figure mitiche degli animali nell’allestimento dell’artista Luiz Zerbini. Ecco, questa era una mostra che poteva stare benissimo all’interno di questa Biennale. Magari adottando il sistema di Germano Celant quando da Prada in Venezia ripropose Live in your head. When attitudes become form, remixando Harald Zseemann l’ideatore della stessa nel 1969.

Sì, molte perline si sono viste, dai colori accesi come nel padiglione americano con il nativo Cherokee Jeffrey Gibson pieno di geometrie e ricami, come si vedevano nei film di pellerossa, che però alla fin fine stancano, tanto sono disseminate su tutta la mostra. Pure nel Canada vi sono tante perline alle pareti che danno grazia al bel Padiglione trasparente con l’albero interno che lo governa. Accanto, di fianco si accede alla pensosa Germania con la ricostruzione dell’appartamento e del luogo di lavoro di un immigrato turco che ha consumato la vita fra l’amianto dell’Eternit in una fabbrica tedesca. Subito dopo, nello stesso padiglione, una astronave da trasporto dovrebbe darci speranza in altri mondi futuri con altre colonie da lavoro? Nel Giappone una serie di condotti, tubi e filamenti metallici creano dinamicità fra vasi comunicanti, oltre a nature morte in cerca della loro intima sostanza sonora collegate da filamenti sensori in una connessione sinaptica che ci fa pensare che tutto è vita. Ma qui c’è già passato Fluxus con Joe Jones e Gutai. All’interno della mostra una sala dedicata alla Colonizzazione. Qui l’esposizione si fa mostra documentaristica sulla colonizzazione dell’Africa e di come noi bianchi vedevamo (e forse ancora vediamo) la gente di colore nella loro quotidianità e di come questa veniva raffigurata in pubblicità con statuine ricordo in forma caricaturale di macchietta. Queste ricostruzioni sono più interessanti delle foto esposte. Infine, un ricordo d’Africa la presentazione del gruppo del congolese CATPC che occupa il padiglione olandese con la mostra The International Celebration of Blasphemy and the Sacred. Ero partito ricordando Magiciens de la Terre (1989) dove i curatori ci avevano fatto conoscere la pittura e la scultura africana. Scultura qui presente con delle bellissime opere di terracotta non monumentali, quasi da casa, per dire della loro presenza vitale, ma pur tuttavia tragiche nella descrizione del loro esistere. Mito e tragedia rimandano alle nostre tragedie poetiche come quella del Conte Ugolino di Dante che mangia i suoi figli come nella scultura del Poisson Protecteur di Daniel Mvunzi (2023). A conferma che il dolore appartiene a tutto il mondo universo come del resto i sentimenti. I padiglioni Russo ed Israeliano erano chiusi per l’ovvio impegno guerresco (sic). Mentre il vincitore del Leon d’Oro, il Padiglione Australiano, non ho voluto vederlo anche se dicono affascinante per la ricostruzione dell’Albero Genealogico tracciato da Archie Moore sulle pareti del padiglione che racconta di invasioni coloniali, massacri, incarcerazione, e migrazione. La ricerca più o meno araldica mi ha ricordato la poesia di Jaques Prévert La Belle Famiglie sui re francesi che si erano fermati a 18, incapaci di arrivare a 20.  Così mi pare che l’Australia sulla immigrazione e razzismo non sia ancora giunta a soluzione.

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