A Rudolf Levy un brutto giorno successe che, mentre credeva di incontrare due collezionisti d’arte interessati ai suoi lavori, invece erano due agenti della Gestapo sotto mentite spoglie che non si lasciarono sfuggire l’occasione di porre fine alla sua clandestinità. Iniziò così, in un freddo dicembre fiorentino, il viaggio senza ritorno verso Auschwitz del pittore tedesco Rudolf Levy (1875-1944). Un nome a lungo dimenticato, riscoperto di recente grazie alla messa a dimora di una pietra d’inciampo che ne riporta le generalità in piazza Santo Spirito, all’altezza del civico nove, davanti a Palazzo Guadagni dove visse e dove gli fu tesa quella trappola mortale.
A ricordarlo, in continuità con quella giornata, la mostra “Rudolf Levy (1875-1944). L’opera e l’esilio” allestita a Palazzo Pitti, fino al 24 febbraio, su iniziativa delle Gallerie degli Uffizi in collaborazione con il Museo e Centro di Documentazione della Deportazione e Resistenza di Prato e con curatrici Camilla Brunelli, Vanessa Gavioli e Susanne Thesing. Tra le opere esposte “Fiamma”, il primo dipinto di Levy a entrare nella collezione del museo per volere del suo direttore Eike Schmidt.
Levy era nato a Stettino nel 1875 e si era formato in scuole d’arte a Karlsruhe e a Monaco di Baviera. Essenziale nel suo percorso la decisione di trasferirsi a Parigi, dove visse dieci anni facendo parte del gruppo degli artisti del Café Du Dôme e della cerchia di Henri Matisse (il suo primo punto di riferimento). La tappa successiva fu Berlino, dove divenne un membro del movimento della Secessione ed ebbe successo in alcune mostre personali e collettive. Almeno fino all’avvento del nazismo, nel 1933, quando per via della sua identità ebraica si trovò costretto ad emigrare verso altre destinazioni. Le tappe del suo girovagare in cerca di maggiore serenità furono molteplici: Nizza, Rapallo, Maiorca, New York, l’isola Syipanska Luka di fronte alla costa dalmata. A partire dal 1938, infine, l’italiana Ischia. Essendo colpito dal Regio Decreto Legge del 7 settembre 1938 che minacciava gli ebrei stranieri di espulsione se non avessero abbandonato il Paese entro sei mesi, tentò di ottenere un visto per il Sud America ma ogni sforzo per averlo fu vano. Da Ischia dovette quindi spostarsi a Firenze, dove mise radici alla Pensione Bandini assieme ad altri artisti e intellettuali invisi al regime: tra gli altri i pittori Eduard Bargheer, Kurt Craemer, Karli Sohn-Rethel e Heinrich Steiner e lo scrittore Herbert Schlüter.
Nonostante le difficoltà, furono anni proficui di impegno creativo. Dei circa trecento dipinti a olio che si conoscono di lui, oltre sessanta sono nati durante quel soggiorno. Dopo l’otto settembre l’occupazione nazista sconvolge però ancora di più la sua già precaria esistenza. Levy si nasconde in una torre in Borgo S. Jacopo, non lontano da Santo Spirito. Talvolta si reca comunque nella sua stanza di un tempo, per dipingere e forse per sentirsi ancora un “uomo” e non soltanto un individuo braccato. Una scelta che si rivelerà tragica. Proprio lì infatti quei finti collezionisti sulle sue tracce lo arrestano e lo fanno imprigionare al carcere delle Murate. La sua sorte, varcata quella soglia, è ormai segnata. Sarà poi in un altro carcere, quello milanese di San Vittore. Da lì sarà deportato in lager su uno dei convogli della morte partiti dal binario 21 della stazione ferroviaria sede oggi del Memoriale della Shoah cittadino. Ad interessarsi alla sua vicenda è stato per primo lo storico berlinese Klaus Voigt, uno dei massimi esperti di Shoah ed emigrazione ebraico-tedesca in Italia, da poco scomparso. La mostra nasce nel suo nome.