Umberto Martina, fra sacro e profano


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Fino al 7 giugno a Palazzo Ricchieri in Pordenone è aperta la mostra su Umberto Martina nato a Budoia nel 1880 e morto in Tauriano di Spilimbergo nel 1945, più volte presente alla Biennale di Venezia dopo gli studi a Monaco di Baviera. Organizzata dalla Fiera di Pordenone, col paternariato della Fondazione Friuli e Comune di Pordenone.

Il sacro e il profano

È stato un destino comune, tipico per l’epoca, quello dei nostri ottimi pittori triveneti: fare una propria pittura, da una parte, e dall’altra cercare commissioni da privati e da ordini religiosi. Così, ad esempio, per Giacomo Caramel, nella chiesa a Fagarè di Piave, dove è nato, e nella Via Crucis del Duomo di San Donà di Piave. Diversi altri pittori, come loro, ebbero la possibilità di insegnare nelle scuole di Arti e Mestieri sorte come funghi dopo il 1920 un po’ in tutta Italia. Si pensi alla Scuola di Mosaico, sempre di Spilimbergo! Umberto Martina trovò nel sacro una serie di commissioni importanti che, a mio avviso, però, gli fecero tralasciare quella sicurezza nell’uso della materia pittorica e della conseguente gestualità che emergevano invece nella sua pittura profana. Nel sacro egli era più lezioso, e tornito. Quasi illustrativo in questo repertorio classico storico. Accattivante sì, tanto da essere comunque amato ed ammirato, mentre mantiene ancora nella misura piccola delle opere sacre la propria impronta espressiva da pittore nordico. Qui si incrociano pennellate piene di luce accanto ad una preziosità della materia che si illumina da dentro, e rende oggettiva e personale la figurazione, tanto da ricordare la pittura fiamminga così minuziosa e precisa. Così nelle opere qui presenti della Sacra Famiglia, mentre nella Crocefissione vi sono echi di Frans Hals e Rembrandt per la luce dirompente dall’alto. La testa del Cristo dai toni rossi diventa un quadro del primo espressionismo della scuola di Dresda. La Testa di vecchio con la Barba (San Bartolomeo) è di una precisione da bulino tipica della pittura nordica. Le tre Sante, a parte la composizione della scena alla maniera del Tiepolo, hanno ancora baluginii espressionistici che rendono i visi ancora vivi nel loro fervore sacro.

Umberto Martina, Donna con Orecchino

Nei Nudi (quattro più un disegno) vi si può ritrovare il segno di un certo Liberty, anche se rigido quasi intagliato, come nel Ritratto allo specchio e in Allegoria, nudi femminili. La linea ritorna più morbida nel grande Nudo disteso (anni Venti) pieno di lucore bianco con sul fondo una scimmia fatta con pennellate forti e dense accanto ad un bagliore blu che crea un netto contrasto tra la figura bianca e il fondo oscuro. Mentre nel Piccolo Nudo di schiena si riconosce la posa di un nudo di Velasquez attorniato da sciabolate di pennello che rimandano al fare di Giovanni Boldini. Le scenette galanti veneziane, infine, ricordano il Settecento di Pietro Longhi e mimano una Venezia da racconto oramai favolistico, venato di nostalgia, che le pennellate ricostruiscono manieratamente.

La sua pittura

La passione per i maestri nordici o per una pittura materica stesa a pennellate larghe e dense, non a velatura d’olio come l’olio stesso richiederebbe, è qui espressa dal Martina al naturale, cioè come il colore esce dal tubetto, senza alcuna diluizione. Questa maniera di usare e trattare la materia, la pasta del colore, è tipica del Nord. Essa è presente in molta pittura mitteleuropea. Non a caso tutti i pittori triestini andavano a studiare a Monaco di Baviera, mentre i veneziani gravitavano su Parigi. Ed ecco spiegata la leggerezza e l’ariosità pittorica dei veneti, piuttosto che l’atmosfera densa e cupa, a volte, dei triestini. Le atmosfere intense e scure sono spesso presenti nella pittura Mitteleuropea ed espressionista. Ho presente un “mare nero” di Emil Nolde, tant’è che molti espressionisti, vedi Franz Marc, scopriranno la luce solo scendendo nell’Africa mediterranea: Algeria, Marocco. I Vecchi o Teste di vecchi, di Umberto Martina, sono costruiti con questa tecnica materica a larghe pennellate tanto da farlo diventare, lui così psicologista nei ritratti, quasi un manierista che ripete una formula ben rodata e sicura. Mentre in Donna con Orecchino, un volto di signora su cartone, fa splendere la sua pittura, la quale costruisce dall’interno la luce di questo ritratto quasi frontale e per questo moderno, come nella ritrattistica fotografica contemporanea, che ne fa, a mio avviso, uno dei migliori in mostra. Ma lo scatto, e la zampata pittorica da vecchio leone, è spesso presente nei grovigli materici o colpi di luce che sembrano sciabolate. Si veda a tal proposito la Giovane Seduta.  Lo sguardo ti ammalia e ti fa dimenticare tutto il resto: le macchie che costruiscono come mattoni il viso, e il vestito! Quel vestito fatto di un grumo materico impastato di getto da pennellate grasse, quasi fosse un quadro astratto degli anni Cinquanta del periodo informale. Il che ci fa chiaro il pensiero di Licio Damiani quando sostiene che Umberto Martina è stato un pittore sempre dibattuto fra l’adesione agli schemi di un linguaggio tardo ottocentesco, suggestioni liberty, con la necessità di adeguarsi alle richieste della committenza e una pittura a tratti pervasa da “fremiti di libertà creativa che finiscono per farla uscire dall’alveo ottocentesco” (L. Damiani).

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