La mostra dedicata ad Arturo Martini al Museo del Novecento di Firenze, aperta fino al 14 novembre e realizzata a cura di Lucia Mannini, si inserisce all’interno del ciclo “Solo” dedicato ai maggiori artisti del Novecento, pensato per raccontare aspetti peculiari e meno noti della vita e della pratica di grandi protagonisti nella pittura e scultura del secolo scorso.
La presenza di Arturo Martini a Firenze si ricostruisce sia attraverso la sua partecipazione a importanti esposizioni, sia perché è stato immediatamente oggetto di interesse da parte di collezionisti privati, come attesta la presenza di una serie di sue sculture conservate nel capoluogo toscano. Il legame tra Arturo Martini e Firenze si declina nella presenza, e nel ritorno, di alcune sue opere fondamentali degli anni Trenta e infine anche nel rapporto con le fonti visive che i musei fiorentini avevano potuto offrirgli. Il legame affettivo con Roberto Papi aveva portato Martini a stabilirsi per alcuni mesi a Firenze all’inizio del 1931, lasciandovi, nella villa che l’aveva ospitato, Villa Fasola, una scultura in gesso ritenuta dispersa e che oggi, rintracciata, è presentata in mostra a introdurre quel momento cruciale all’inizio degli anni Trenta. Nel corso del 1931 Martini manteneva intensi contatti con Roberto Papi in vista della mostra personale, con Primo Conti, dell’anno successivo.
L’ingresso di quattro opere nella raccolta che i Contini Bonacossi stavano allestendo a Villa Vittoria confermava l’interesse dei collezionisti per Martini.
In seguito altre opere entrarono in collezioni cittadine, come quella Valli (Testa di ragazza ebrea, concessa in prestito dalla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Cà Pesaro) e quella di Mario Castelnuovo Tedesco, musicista dalla cultura complessa e raffinata, autore di opere tratte dalla mitologia classica, dalla religione ebraica, dalla letteratura, come Machiavelli e Shakespeare. L’attenzione di Castelnuovo Tedesco era caduta su Ofelia, terracotta di toccante sensualità e tragicità. Nel 1939 Mario Castelnuovo Tedesco, ebreo, dovette lasciare l’Italia con la sua famiglia a causa delle leggi raziali, riuscendo però a salvare i propri beni. L’Ofelia, a lungo conservata negli Stati Uniti, rientra eccezionalmente oggi a Firenze.
Un rapporto di stima reciproca è quello che lega Martini al pittore Felice Carena, avviato già nel periodo trascorso da entrambi ad Anticoli Corrado e rinsaldato negli anni successivi, seppur a distanza. Ad attestarlo in mostra è la versione in bronzo, inedita, dell’Ulisse del 1935, regalata da Martini a Carena e a sua moglie Mariuccia Chiesa con ogni probabilità intorno alla metà degli anni Trenta.
Il rapporto di Martini con Carrara e con il marmo ha il carattere della scoperta e dell’avventura e, in mostra, le forme elusive e misteriose della Donna che nuota sott’acqua, che fluttua sospesa, galleggiante nello spazio, su tre perni metallici ideati dall’architetto Carlo Scarpa per la presentazione dell’opera alla Biennale di Venezia del 1942.
Nata da uno scaglione del grande blocco del Tito Livio, l’opera in marmo era giunta alla rifinitura, quando Martini decideva di decapitarla, con un colpo netto e spietato, creando così il frammento e il sublime effetto dell’irraggiungibile compiutezza. L’eccezionale prestito concesso dalla Fondazione Cariverona vale a rappresentare la ricerca estrema condotta da Martini negli anni Quaranta, cui si affianca il dipinto Le cave del marmo con il quale l’artista si ricorda quella profonda insoddisfazione che lo aveva indotto ad abbandonare temporaneamente la scultura per dedicarsi alla pittura.
Il percorso della mostra si chiude con il ritrovamento di un’opera giovanile, l’Aratura, custodita in una raccolta privata fiorentina.