Il minutaggio serve all’arte?


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Sessanta secondi per Monet, Leonardo, Kosuth, Brueghel, eccetera

Il minutaggio serve all’arte? Probabilmente serve a comunicare (forse meglio) l’arte. Ma occorre partire da molto lontano: comunicare l’arte, ovvero trasmettere la passione verso le arti figurative (in questo libro, tutte le altre in genere) è da sempre un problema che affligge o meglio riguarda l’umanità. È giusto cambiare il verbo affliggere (dalle connotazioni negative) con quello assai più generico di riguardare (assoluto neutralismo), perché l’umanità non si preoccupa più di tanto di apprezzare la Gioconda leonardesca o I girasoli di Van Gogh né tantomeno l’esistenza di conoscere una Cappella a Ronchamp progettata da Le Corbusier o di un teschio diamantato a firma Daniel Hirst. La gente, intesa come maggioranza silenziosa, oggi è attratta dalle partite di calcio, dagli abiti firmati, dei menu dei grandi chef, delle boiate televisive, dal gossip sui VIP, dal criticare qualunquisticamente la politica, dal sesso anche nei risvolti pornografici, da un vitalismo fisico riversato in tecnologizzanti palestre o in sport estremi.

Joseph Kosuth – Neon (1965)

Le percentuali di visitatori di mostre musei o, peggio ancora, il numero di lettori di libri o riviste sull’arte è bassissimo rispetto alle attività sopra indicate, persino in un paese come l’Italia, che viene reclamizzato dai ministri della cultura o dagli assessori locali come quello che detiene il 50% dell’intero patrimonio artistico mondiale, peraltro distribuito, gestito, fruito in maniera pessima, assunta, scriteriata, se si pensa ai flussi turistici.

Anche quest’ultimo aspetto c’entra parecchio sia con il minutaggio sia con il comunicare l’arte: basta fare qualche esempio. Osservando alcuni luoghi d’arte affollati, talvolta persino intasati – Pompei, la torre di Pisa, gli Uffizi, il Ponte dei Sospiri, il Colosseo – sembrerebbe che il rapporto tra le masse e l’arte funzioni a meraviglia e che quindi un certo tipo di comunicazione sia ben oliato. Ma se ci si sposta sono di qualche decina di metri dai posti appena indicati, il panorama è desolante: in tal senso forse esiste un ulteriore esempio di come le masse si rapportino all’arte seguendo le mode, ovvero una comunicazione sbagliata, distorta, limitativa. Il museo che logico di Reggio Calabria, da quando vi sono esposti i cosiddetti Bronzi di Riace constata che la presenza del flusso turistico e pari al 88% nella sala dove sono collocate le tue bellissime statue greche, mentre i restanti spazi che contengono notevoli esempi di arte antica vengono snobbati o tralasciati (seguiti insomma da quel misero 12%).

Cosa dunque si può fare per comunicare al meglio l’arte del popolo? Già una ventina d’anni fa, sul quotidiano Repubblica, Alessandro Baricco, in polemica con molti esponenti della cultura di sinistra impegnati su differenti ambiti (teatro, cinema, musica, danza, ma anche letteratura e arti figurative) propone che lo Stato non spenda più denaro pubblico versando contributi a pioggia a enti, associazioni, circoli, club, compagnie, gruppi, movimenti e via dicendo, ma investi seriamente i soldi dei cittadini potenziando le due maggiori agenzie con educative oggi di maggior resa numerica sull’intera popolazione: la scuola e la televisione.

Basta riflettere un attimo e si capisce subito che Baricco ha ragione da vendere. Da un lato, grosso modo, fra i 3 e i 25 anni, i giovani trascorrono il loro tempo a scuola o per, come, nella scuola, tra materne, primarie, secondarie e università. Dall’altro tutti, poi, passano un’infinità di ore – forse la maggior parte del tempo libero – davanti al piccolo schermo, anche se oggi alla tivù si affiancano i social dalla conformazione assai meno rigida e più liberale in tutti i sensi. Ed è comunque non per conoscenza diretta della realtà medesima, ma attraverso la mediazione di tivù e social che la gente fa esperienza dei piaceri sopraindicati, non come fenomeni estetici, bensì quali surrogati di vita vissuta, niente sport, cucina, recita, canto, amore, ma tutto filtrato, dai match sportivi alle gare fra cuochi, dai talent ai reality, fino all’erotismo per procura.

Ora, comunicare l’arte attraverso la scuola e la TV, sarebbe non solo doveroso, ma obbligatorio, anche se il maggior deterrente, in tal senso, riguarda il fatto che purtroppo sia la scuola sia la TV si occupano già di arte, ma con sistemi, atteggiamenti, metodi totalmente riduttive, per non dire errati o controproducenti.

Per sintetizzare, a scuola anzitutto si pratica il disegno fino alle superiori dove vengono insegnate le tecniche, di rado relazionate agli stili degli artisti del passato e del presente; in alcuni licei si insegna storia dell’arte e ubbidendo al solito vieto storicismo (alla Giovanni Gentile), che sfocia in erudizione nozionistica, mentre sarebbero necessarie, in ogni grado di scolarità diverse ore di educazione al bello partendo dal territorio, constatando fisicamente le presenze artistiche nei luoghi vissuti o percepiti quotidianamente da professori e studenti: i centri storici di città e paesini, borghi e metropoli, sono autentiche enciclopedie di arte visiva (in fondo il quadro alla parete di casa è un simbolo della borghesia, ristretto a un periodo storico abbastanza breve, mentre la maggior parte dell’arte è pubblica, esterna, osservabile da tutti).

In TV servirebbero programmi in prima serata dal taglio dinamico, amichevole, coinvolgente: pure interessanti documentari elegante però a volte impossibili o su canali tematici esclusivi di quest’anno appannaggio di chi già ama o conosce l’arte. Trent’anni fa spunta in un talkshow un giovane critico d’arte dalla forte vis polemica, Vittorio Sgarbi, Che diventa presto un beniamino del pubblico ovvero un personaggio conosciutissimo, dei tratti divistici, ma purtroppo sfruttato quasi subito per la spettacolarizzazione delle sue invettive, condotte purtroppo sempre più fuori dal mondo dell’arte, talvolta senza competenze specifiche. A contrastare il predominio sgarbiano televisivo vengono via via proposti Philippe Daverio e Flavio Caroli, le cui raffinate divulgazioni presentano livelli ancora troppo alti per comunicare l’arte al popolo. Oggi forse il piccolo schermo necessiterebbe di un Alessandro Barbero dell’arte, ovvero di uno studioso preparatissimo e al contempo in grado di comunicare bene a tutti, così come fa il professore torinese con la storia medievale.

Forse a questo punto si potrebbe tentare un serio esperimento con Laura Collu, visto il successo da lei ottenuto sui social, in tutt’altra direzione, ossia facendo della comunicazione dell’arte una questione di minutaggio, parlando in sessanta secondi via via di Monet, Leonardo, Kosuth, Rotella, Brueghel, Canova, Brancusi, Klimt, Courbet, Ulay e un cinquantina di altri soggetti, fra pittori, architetti, scultori, fotografi, performer, teorie, problematiche, argomentazioni.

 Del resto in una recente intervista di Giusy Curcio su «Velvetmag», il 30 dicembre 2020, la Collu afferma: “Ho studiato Storia dell’arte e come faccio con tante mie passioni, dai viaggi, alla musica alla lettura, mi piace condividere le mie cose online, lo faccio da tanti anni, sono una ‘internettara’ convinta e quindi l’ho fatto anche con questa rubrica che è nata su Instagram, si intitola Un minuto d’arte e che abbiamo deciso di trasformare in libro. Spiegare le cose in maniera accessibile, soprattutto quando sembrano difficili da comprendere, sul canale giusto, con la giusta spontaneità, ha funzionato. Quando abbiamo deciso di scrivere il secondo libro è stato abbastanza spontaneo puntare sull’arte e anche qui ci sono stati dati incoraggianti. La trasposizione da Internet alla carta sta pagando; siamo molto contenti!”.

Il minutaggio – nel senso dell’uso di un minuto – sembrerebbe dunque l’arma vincente onde poter “insegnare – lo dice sempre Daniela alla Curcio – quelle ‘quattro cose in croce’ che so alle persone, perché tante, soprattutto sulla rete hanno insegnato delle cose a me e io imparo. Lo dico anche nel libro, sono assolutamente grata a quelli che divulgano cose più o meno importanti, inedite e curiose, online, perché sono una fan della rete e credo che sia uno strumento che se usato bene apre una quantità di porte sulla conoscenza, sullo scambio, sulla cultura nel senso meno snob del termine. Forse prima della rete solo la televisione ha avuto questo ruolo. Sai quando si dice che la televisione ha insegnato l’italiano agli italiani. È molto vero, anche la rete, fake news permettendo, può avere questa missione. Se alla fine del mio Un minuto d’arte, cartaceo o su Instagram, le persone che mi seguono sanno qualcosa in più su Michelangelo e gli ha fatto piacere impararla, sono felice così”.

Dunque il minutaggio serve all’arte? Probabilmente serve a comunicare (forse meglio) l’arte, se lo si fa, come suggerisce Laura Collu, attraverso il paicere della riscoperta senza filtri e senza soggezione con lo sguardo libero di ogni fruitore.

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