Parigi, metropoli polimorfa, multietnica, cosmopolita, pluriculturale da tempi immemori, è la città, geograficamente europea, con spirito e carattere intercontinentale, che molti artisti, specialmente intorno alla metà del secolo scorso, hanno eletto a patria personale per la sua capacità ricettiva e ospitale, oltre a quella di valorizzazione delle genialità, di certa libertà espressiva e di interazioni umane incondizionate. È qui che aveva scelto di porre il suo domicilio Vladimir Vélickovic, fin dal 1966, per poter lavorare come in una posizione al di sopra delle parti che gli consentisse una visuale più ampia e obiettiva della realtà, con distacco e partecipazione insieme. Da Belgrado, dov’era nato nel 1935 (è morto a Spalato nel 2019), aveva studiato e si era formato artisticamente anche partecipando alle ricerche sulla creatività del fantastico in ambito al gruppo Mediala. Ad Arceuil, nella cintura della capitale francese, operava nell’ampio e luminoso studio, letteralmente sovrastato dai suoi dipinti con i quali era in perenne, reciproca provocazione, stimolazione, competizione sotto forma di dare/avere di immaginazione, fantasia, espressività, che corrispondevano la loro concretezza iconografica, solitamente su superfici di grandi dimensioni, quasi a significare l’immensità del privato stato mentale. Egli aveva stabilito la sfera emotiva ed affettiva tra se stesso e le sue creature in cui è inglobata la realtà, agente da arma e mezzo di tormento tanto da trasformare l’autore in aguzzino delle sue stesse immagini, che stuzzicava fino all’esasperazione. Tra artista e opere il dialogo era aperto, mai esaurito. Esso si svolgeva sulle vibrazioni della tensione di una coscienza sociale troppo incline alla violenza e ne riportava l’eco con intensa carica espressiva.
Vélickovic era un attento osservatore degli accadimenti ed un raffinato, nobile interprete degli umori e delle emozioni dell’umanità, che argomentava non come fatti di cronaca, raccontata o sterile denuncia fine a se stessa, ma trasformava in arma con la quale combattere gli orrori della crudeltà mostrandone le sofferenze e le conseguenze, tracciate con potenza e sensibilità. Lo shock provocato da tale visione doveva colpire e lasciare il segno indelebile nella memoria dell’osservatore fino a condizionare eventuali propensioni cattive. La sua lotta personale contro il male non era fisicamente cruenta, ma mentale ed educativa, persino preventiva a saperla indirizzare giustamente, se non fosse per il fatto che simile tendenza derivava in buona parte dall’esperienza. Pur abitando in altro luogo, l’artista aveva vissuto con profonda partecipazione emotiva alle vicende drammatiche di cui la sua terra d’origine era stata teatro e vittima, nello stesso tempo, dilaniata dalla guerra tra etnie, dalla distruzione disumana e impietosa.
La sua è un’espressione dell’inesprimibile, che si serve di tutti i mezzi comunicativi consentiti all’arte, comprese le simbologie e le metafore, l’incisività dei segni, dei tracciati forti, fluenti, neri, la potenza dei colori decisi, del rosso sangue, del nero puro, dei contrasti, della materia densa o rasata portata alla trasparenza.
Dal mistero dell’ignoto alla paura del futuro, dove incombe il rischio che possa prevalere la cattiveria sull’Amore, nelle opere di Vélickovic è ben intuito il caos che ne deriva contro l’ordine, dentro l’atmosfera di un inferno dantesco, dei gironi infiniti, delle bolgie. Dunque, non è la morte in sé che spaventa; anzi, essa richiama un nostalgico ammiccamento romantico e rappresenta il termine delle torture. Invece, la belva divoratrice è il processo innaturale che conduce all’annullamento, la violenza fisica ed intellettuale che uccide corpi e menti, tra inaudite sofferenze.
Malgrado tante ossessioni, inquietudini, angosce, il Maestro serbo manteneva un sorriso rassicurante ed uno sguardo sereno, di colui che è consapevole di aver contribuito di persona a determinare una svolta positiva nella società. Tanto travaglio, dal punto di vista estetico-speculativo, dove privilegiava la passione per il culto della verità e della giustizia, si colorava di un espressionismo lirico che si traduceva in realismo dell’immaginario, ossia dei sentimenti anziché della natura fisica e concreta. Sono le follie assurde dell’umanità che stuzzicavano la sua fantasia fervidissima e lo portavano a comporre opere in schemi di figurazione visionaria, con stile assolutamente personale nell’immaginazione e nell’invenzione di spazi spettrali. Si creavano ambienti speciali, nei quali pulsavano le energie delle creature di vario tipo, da quelle inclassificabili dalla realtà quotidiana ad esseri deformi, da figure evanescenti, fantasmi, dati da suggestioni e trasparenze, a belve feroci pronte a balzare fuori, al di qua della superficie dell’opera e l’espressività si concentrava nella mimica, nei segni che delineavano slanci, dinamismi, smorfie, che inquietanti effetti ottici mostrano mutanti.
Poiché determinate caratteristiche sono permanenti e ricorrenti nelle creazioni di Vélickovic, esse sono riconducibili innanzi tutto a ragioni dell’inconscio prima ancora che alle esperienze reali e personali. Fino dagli anni Sessanta, le figure elette a soggetto nelle sue opere, siano persone o animali, si trovano normalmente a confronto con situazioni e luoghi terrorizzanti e il dramma è regolarmente in agguato. Il movimento e il dibattersi tra le insidie di questi corpi acquista maggior vigore nei lavori degli anni Settanta, mentre nei due decenni successivi essi appaiono decapitati, torturati, dilaniati con più insistenza nell’evidenza dei dettagli. Il cane, da “migliore amico dell’uomo”, diventa una fiera incontenibile, con la smorfia crudele, i denti digrignati; un’immagine dell’uomo stesso, della sua aggressività, della soppressione dell’etica, umana, politica, sociale.
Lo spauracchio, sempre presente ed esplicito, evidente, aperto, è monito e avvertimento, modello educativo delle coscienze, espresso nel mondo figurativo dell’opera che tende a risvegliare il giudizio della ragione, attraverso la formulazione estetica che abbraccia un certo surrealismo di stampo intellettuale, da cui derivano forma e consistenza del pensiero, della filosofia esistenziale. È vero, sono opere che inducono alla riflessione, appena dopo il primo impatto forte e inquietante; ma sono le risoluzioni plastiche, formali, cromatiche, è lo stile linguistico, assieme al rigore estetico, alla perizia tecnica, alla coerenza con le proprie immaginazione e creatività, è la nobiltà del gesto pittorico e del tracciato segnico, l’organizzazione, la strutturazione, l’equilibrio compositivo, la poetica e la fantasia, che fanno di Vladimir Vélickovic uno dei maggiori e più amati maestri dell’arte contemporanea europea.