Alberto Biasi


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In tutta la sua attività artistica Alberto Biasi (Padova, 1937) ha messo in atto le sue teorie, molto simili a quelle scientifiche, non con studi ed esperimenti chimici e fisici, ma con la genialità e l’intuizione, operando sui pigmenti, sui corpi materici/immateriali, sfruttando, dopo averla creata, l’alternanza pieno/vuoto delle trame, degli interstizi lamellari, provocando un sommovimento fino alla scomposizione e ad una nuova ricomposizione molecolare. Operazione che modifica lo stato primitivo, o naturale, dell’oggetto spingendo alcune sue parti all’invisibilità e altre all’evidenza, per effetto dell’annullamento reciproco di due raggi luminosi nel punto di scontro. O, perlomeno, induce ad una visibilità diversa da quella consueta che crediamo reale, per la quale è insufficiente la spiegazione della percezione visiva secondo la psicologia gestaltica. Si tratta, invece, di una verità fisica nella quale ci soccorre l’esempio della visualizzazione che si crea dell’angolo spezzato su un bastoncino dritto immerso in un bicchiere d’acqua, dove la rifrazione della luce annulla le molecole.

Alberto Biasi, Politipo 1969, rilievo in PVC su tavola 60×60

Per Biasi è chiaro: il segreto va ricercato nel mistero della luce, elemento incorporeo, ma non astratto, che determina forme e colori ai corpi e alle masse, mutanti col suo mutare. Ed è in questo stesso ambito che trova collocazione la sua personale idea di movimento, che semplifichiamo col termine “virtuale” ma che, nella realtà fisica, è fenomeno molecolare. Da qui partono anche gli indizi per l’individuazione della quarta dimensione, da non considerare una locuzione poetica letterariamente suggestiva e intrigante, ma una realtà concreta.

Per Biasi il cinetismo non è solo un un fatto generazionale, un aspetto di contaminazione culturale dentro cui si è trovato per forza storica, perché egli avrebbe fatto e farebbe le stesse opere in qualsiasi altra epoca. La differenza di base tra il suo lavoro e quello degli artisti cinetici sta proprio in questa distinzione; ossia, più che il calcolo matematico e la programmazione modulare, egli considera, anche se a volte intuitivamente, un processo spiegabile con la fisica. Utili a percorrere la via corretta tra la sua poliedrica produzione, sono le sue stesse dissertazioni o, come a volte sono definite, teorizzazioni e non di meno lo sono i titoli, singolarmente, i quali rappresentano lo specchio dell’essere umano e artistico di Biasi. In primo luogo, l’etimologia della parola è la stessa radice dell’opera; poi interviene la parte giocosa che si serve di scomposizioni dei vocaboli, dal suono che ne deriva, diverso, delle contraddizioni, fino al doppio senso, scherzoso e beffardo. Essi sono la sintesi dell’autoritratto, dell’immagine e il suo doppio, della natura amletica del suo pensiero, della incalzante bifrontalità, nel senso buono, laddove alla gravità dell’impegno culturale, della riflessione, sono contrapposte l’ironia, la dissacrazione, il divertimento, la provocazione.

Con questo spirito, consapevole dell’efficacia del respingere per attirare, della necessità di opporre un contro al verso, cerca di allontanare il pubblico dall’arte per attirarlo e, con “La mostra chiusa” del 1960, vieta agli invitati di visitare la mostra “Nessuno è invitato ad intervenire”, creando dispetto e curiosità; inoltre solleva stupore e sorpresa nelle persone con immagini inconsuete per spingerle a riflettere, appare difficile e si svela con titoli spiritosi.

Niente nelle sue ricerche esclude il legame con la natura, il coinvolgimento sentimentale ed emotivo, la poetica della creatività. Al contrario, questi sono gli elementi fondamentali dalla cui osservazione attenta ha origine lo svolgersi degli eventi artistici, dal teorema all’opera concreta e, contestualmente, dal ragionamento serio e impegnato alla proposizione godibile e vivace, affinché la fruizione possa essere un sano nutrimento per la mente, lo spirito, l’intelletto ed anche l’umore. È proprio dalla natura che si apprendono primariamente Le contraddizioni, allorché si scopre che la verità delle forme, dei colori, dello spazio e persino del tempo non è quella che si sperimenta sensorialmente nella quotidianità e le stesse abitudini umane, determinate dalle condizioni fisiche, sono devianti rispetto la realtà-reale, per cui la risposta allo stimolo della percezione retinica, ad esempio, è falsa.

La disamina severa delle proprietà delle figure avviene dunque considerando la duplicità dei vari dati ed è privilegiato il rapporto tra realtà vera e percezione visiva, che non può prescindere dalle conoscenze scientifiche acquisite, anzi esse diventano l’elemento equilibratore, quello che, avendo individuato i limiti umani, solleva l’ironia come forma di autocritica. Ecco perché la connessione con i numeri, quindi il calcolo e la matematica, è una condizione, conseguenza naturale, ragione che distingue il lavoro di Biasi da quello precipuamente cinetico e programmato. Egli trova, senza intenzioni presuntuose, anziché ricercare, ma che in determinate ottiche esige provare la relazione tra spazi, superfici, punti, linee. Che è la risposta, e la voglia di approfondire, allo spaesamento, alla sorpresa formulati dallo spirito di negazione-affermazione.

Individuo, dunque, con pulsioni personalissime, che cerca nella società complicità e nel gruppo unità di intenti, ma che per il suo carisma ne diventa mattatore, propulsore, anima, teorico, fino a elemento di disturbo brillante, poliedrico, a volte scontroso, scomodo e sostanzialmente contrario all’idea di appiattimento mentale, malgrado i tentativi di adeguamento.

Considerando complessivamente il lavoro di Alberto Biasi nel tempo, emerge questa sua individualità nel sezionare forme, colori, spazi e nella produzione di immagini nuove, che da tali operazioni derivano, lontane dai dogmi soprattutto nel loro percorso costruttivo, i cui rigore e coerenza sono animati dal divertimento nello stuzzicare le varie metamorfosi, trasformazioni, evoluzioni, nel rendere ambigua la realtà, nel provocare reazioni varie che vanno dallo stupore alla ilarità, alla diffidenza.

Negli anni Cinquanta ed inizio Sessanta del Novecento, con le “Trame” egli aveva già superato le ricerche artistiche allora in atto; aveva stupito e sconvolto, eppure i suoi riferimenti alla natura erano espliciti; proprio per questo sfuggivano. Perché i dati naturali, in quelle opere, sono particolari ingranditi, ma lo spazio è reale, la forma è vera, catturati dalle nervature vegetali, dal bozzolo dei bachi da seta, dalla tessitura aracnea, in cui l’azione della luce sembra scivolare con facilità negli intrecci, nei vuoti e sulla materia e determinare colori uniformi, monocromi, se non diversificati nei toni dall’ombra delle sovrapposizioni semplici o composte, dagli spessori da questi ottenuti, A fronte dell’uniformità favorita da corpi semplici, si pongono i prismi che scompongono il raggio e forme che ne modificano la traiettoria lineare. Casi in cui l’opera è immateriale, determinata dai fasci luminosi colorati che, ancora, creano reticoli e trame nei loro incroci di-retti e infinitamente variabili. Il dinamismo cosiddetto virtuale, che determina la definizione “otticocinetico”, è un elemento mai concluso e compare su un lungo arco di lavoro di Biasi, a partire dal 1960, in forme, modalità, vesti differenti, quasi a significare da un lato l’inesauribilità dell’argomento e da un altro lato la tensione creatrice insoddisfatta e protesa sull’oltre. Effetti derivati da forme cromatiche o fisiche, da segni, geometrie regolari e irregolari, sovrapposizioni, vortici con evocazioni, ancora una volta, fisiche e naturali di echi o vibrazioni sonore, aeree, acquatiche, da specularità e successioni di forme composte concentriche, da colori, monocromie, contrasti fino all’esasperazione del bianco e nero, dalle lamelle centrifughe, virtuali o concrete. In ciò riuniti i “Rilievi”, le “Torsioni”, i “Politipi”, distinguono due processi paralleli che infine confluiscono, assieme alle altre esperienze, nella sintesi elegante degli “Assemblaggi”. Si tratta di opere fatte con immagini pulite, razionali, lineari la cui straordinaria sinosi diventa quasi un simbolo del tempo e dello spazio, del ricco e complesso passato, dal vivace presente e delle aspettative future.

Alcune opere successive, che rispetto al lavoro globale di Biasi possono apparire atipiche, vanno ancora oltre nello spazio e nel tempo. Le tele, per esempio, abbracciano le origini delle trame e le loro geometrie, inconsuete alla tradizione dell’arte, cambiano il loro ruolo da supporto di pigmenti e immagini a figure esse stesse, forme volumetriche nelle quali, se è possibile, è ulteriormente evidenziato/sintetizzato il rapporto reale-virtuale, personale-collettivo, singolo-universale.

Ma Alberto Biasi continua ancora la sua ricerca che, immaginiamo, capace di condurci molto lontano.

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