Alla Fondazione MAST di Bologna, dove si viene accolti da quattro guardasala in uniforme virtuali a grandezza naturale che appaiono su altrettanti monitor, fino al 3 maggio si può visitare una mostra collettiva di fotografie che mettono in luce quanto può parlare di noi, della nostra attività, della nostra professione, gli abiti che indossiamo e che diventano così una divisa, un segno distintivo.
Precisa Urs Stahel, curatore della mostra: “Nate per distinguere chi le indossa le uniformi da un lato mostrano l’appartenenza a una categoria, a un ordinamento o a un corpo, senza distinzioni di classe e di censo, dall’altro possono evidenziare la separazione dalla collettività di chi le porta. Le parole «uniforme» e «divisa» rivelano, allo stesso tempo inclusione ed esclusione”.
La mostra è composta da 600 scatti di 44 fotografi più una monografica di Walead Beshty che raccoglie altri 364 ritratti di chi opera nel mondo dell’arte, per i quali l’abbigliamento è segno distintivo, una sorta di tacito codice. In questo senso, la mostra contraddice il detto secondo cui “l’abito non faccia il monaco”. In realtà l’uniforme identifica, indica anche una distinzione di status, emblematico è il grande ritratto di un gruppo di dirigenti di una multinazionale dove la luce illumina solo i volti, le mani, i triangoli formati dai risvolti, dalle camicie bianche e dalle cravatte. Accanto una rivenditrice di generi alimentari (di Marianne Muller) o i macellai (di Irving Penn) o i succinti costumi di scena di un club privé (di Andrè Gelpke). In totale, quasi mille fotografie per immortalare i tanti aspetti di una società sempre più intricata, aggrovigliata, multiculturale e confusa.