di Michele Lasala
Il Museo di Arte Contemporanea “Roberto Bilotti” di Rende (Cosenza), che ha sede nel magnifico castello della città, antica dimora del Municipio e poi divenuto luogo di esposizione dal 2011, nel maggio di quest’anno apre le sue porte a un numero considerevole di opere di autori italiani novecenteschi. Non si tratta questa volta solo di una mostra temporanea, ma di un vero e proprio ampliamento della già ricca collezione che il Museo vanta da anni, con opere che vanno da Mario Ceroli a Andy Warhol, dall’imprevedibile Luigi Ontani al grande Omar Galliani, da Claudio Abate a Pietro Ruffo. Il Museo nacque grazie alle donazioni di Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona e oggi rinasce con un’altra significativa donazione: quella fatta da Giulia Mafai e le sorelle Francesca Romana e Nicoletta de’Angelis, nel nome della profonda amicizia che aveva legato i loro rispettivi padri, quel genio che fu Mario Mafai e il grande collezionista Nicola Maria de’Angelis, scomparso nel gennaio 2016. Un atto d’amore, quello delle figlie, non solo nei confronti dei loro padri, ma anche nei confronti del Comune di Rende che sempre più diventa polo d’attrazione culturale di livello nazionale. La mostra 100 Opere e una Grande Amicizia, a cura di Giulia Mafai, Francesca Romana de’Angelis, Roberto Bilotti e Roberto Sottile è molto di più di una esposizione, perché rappresenta una sorta di cerniera tra il centro e la periferia, tra la realtà appartata e molto spesso ovattata della provincia e quella frenetica e all’avanguardia delle grandi metropoli, dove sembra si concentri, in ogni epoca, lo spirito del tempo. Rotti gli argini, Rende si pone così allo stesso livello delle grandi città sedi di importanti spazi espositivi. Con la collezione che si arricchisce, la città perde via via l’aspetto di un luogo periferico e assume la connotazione di un vero e proprio scrigno di tesori straordinari e unici, rari e storicamente significativi. 100 opere, dicevamo, opere di autori come il già ricordato Mario Mafai, Antonietta Raphaël, sua moglie, Carla Accardi, Franco Angeli, Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi, Bruno Cassinari, Mario Ceroli, Antonio Corpora, Filippo De Pisis, Piero Dorazio. E poi ancora Pericle Fazzini, Tano Festa, Renato Guttuso, Giulio Turcato, Felice Carena, Nino Franchina, Virgilio Guidi, Alessandro Kokochinsky, Sergio Lombardo, Mino Maccari. O Eliseo Mattiacci, Marino Mazzacurati, Fausto Pirandello, Orfeo Tamburi, Lorenzo Viani, Alberto Ziveri, e altri ancora. Una specie di compendio di quello che è stato il Novecento pittorico italiano. C’è la Metafisica, l’esperienza della Scuola romana o – come Longhi voleva – della “Scuola di via Cavour”, così come l’Astrattismo; il clima del Premio Bergamo, così come la pittura di denuncia sociale, o quella drammatica e intimista di vite ai margini della storia.
Quando si pensa alla pittura italiana del Novecento vengono subito in mente nomi come De Chirico, Morandi, Marinetti, Boccioni, Carrà; ma si dimentica che esiste un arcipelago vasto e per certi versi ancora inesplorato, costituito da tante personalità che hanno subito il più delle volte l’ingiusto abbandono da parte della critica e della storia. Figure neglette, sconosciute, alle volte persino cancellate dai libri e che sarebbe giusto recuperare e far riemergere in tutta la loro importanza. Non è certo il caso di Carla Accardi o di De Pisis, né il destino che è toccato a Guttuso o Dorazio; ma artisti come Capogrossi – molto spesso ricordato solo per le famose forchette – Fausto Pirandello (figlio dello scrittore Luigi), Mino Maccari, Virgilio Guidi, Alberto Ziveri, Felice Carena o Eliseo Mattiacci hanno patito il cono d’ombra dell’ottuso oblio storiografico.
Il Museo di Rende compie un’operazione nobile accogliendo quei maestri, e così non teme il confronto con altre ben più note collezioni di pittura novecentesca, come il MART di Rovereto o il Museo del Novecento di Milano. Sì, perché le opere che a Rende sono giunte non sono per nulla secondarie o marginali; esse rappresentano tasselli indispensabili per ricostruire e comprendere ancora meglio la personalità dei loro autori. Opere magnifiche, poeticissime, talora pure, talora delicate come nubi, o evanescenti come vapore. Tuttavia potenti, così come potenti sono stati i loro padri. Così possiamo vedere un pastello con due figure di Fausto Pirandello, esponente eccelso di quella che fu la Scuola romana, accanto a Capogrossi, Ziveri, Cavalli e altri ancora. I corpi nudi delle due figure si muovono in uno spazio indistinto, senza forme, e sembrano dare vita a una danza tribale; un ballo senza veli che preannuncia e prefigura l’atto amoroso. Un Adamo e un’Eva senza più l’inquietudine del peccato, corpi liberi e animati soltanto dal cieco comandamento dell’eros. Come sempre, Pirandello si compiace della carne e anche in questo piccolo lavoro non dimentica che l’arte deve restituire la vita. L’energia dei muscoli e il sangue delle vene, il movimento naturale e il calore della nudità. Franco Angeli è presente invece con un’Incursione del 1982. Su uno sfondo perlaceo tinto qua e là da fievoli chiazze blu, rosa e nere si stagliano nette le sagome policrome di cinque aeroplani. Non è un’opera futurista o di propaganda; è semmai un atto di accusa, una provocazione, un urlo disperato contro la violenza. I piccoli aeroplani colorati sono l’immagine della barbarie distruttiva della guerra. E se così piccoli e così colorati possono sembrare giocattoli innocui, improvvisamente il loro significato si trasmuta e si trasfigura in qualcosa di drammatico e sinistro non appena si ricordi che quei velivoli portano nel loro ventre bombe omicide, per una possibile igiene del mondo. Franco Angeli è molto di più di un pittore, è un poeta, perché capace di restituire non già l’immagine delle cose, ma il loro impatto sulle nostre coscienze. È un artista dell’emotività, del sentimento, dei moti dell’anima.
Di Alberto Ziveri, uno dei più grandi della Scuola di via Cavour, il Museo di Rende accoglie una delicata china su carta del 1935: un Uomo di schiena. Ziveri è uno di quegli artisti che vedono le cose e il mondo soltanto come un insieme di rapporti di colore, di luci e di ombre. Ma anche le luci e le ombre sono soltanto, in fondo, questione di tono. Ed è così che quest’uomo che non mostra il volto fa sentire tutta la sua presenza e il suo respiro pesante attraverso macchie nere ordinate su fondo bianco. Ziveri non vede i contorni degli oggetti, non crede che le forme debbano essere circoscritte e racchiuse entro confini ben netti. Il volume e la forma delle cose sono soltanto un effetto ottico, una realtà fittizia, un semplice gioco di pieni e di vuoti, di chiari e di scuri; il prodotto di un giusto rapporto cromatico tra le parti, il risultato di un’armonia prestabilita. Ma Ziveri non è solo uno sperimentatore virtuoso; è anche un pittore interessato alla verità della vita, anche quando questa dovesse essere dura e perversa. Ziveri ha dipinto infatti postriboli e il clima che in questi luoghi di piacere si respira. Spazi di libertà, ma anche rifugi per dimenticare gli affanni della vita, l’ordinario ritmo del quotidiano. Tutto questo con una pittura robusta, dai forti contrasti, per accentuare il dramma ma anche per far sentire la verità delle cose dipinte. E l’uomo di schiena, in fondo, è come se comunicasse affaticamento, pesantezza, non soltanto fisica, ma anche esistenziale.
Del selvaggio Maccari è presente un olio del 1970, Donne. Qui colpiscono i colori – che evocano l’espressionismo mitteleuropeo – e il movimento, ma ancor di più le figure; figure femminili senza nome e senza storie, prive di identità. A Maccari non interessa darle un volto, perché ciò che lui vuole è dipingerne l’anima. E in questo quadro, in effetti, tutto vediamo meno che corpi in carne e ossa. Vediamo semmai l’essenza della femminilità, declinata in diversi modi e in diverse sfaccettature. C’è l’eleganza e la malizia, così come la sensualità e la libertà. E poi ancora la solitudine, il desiderio, il compiacimento, la grazia, la letizia. C’è, in sostanza, l’idea della donna. È difficile pertanto trovare un aggettivo capace di racchiudere tutto il carattere e il senso di questo quadro. È un dipinto figurativo che tende all’astratto o all’informale, potremmo dire, ma è anche un quadro astratto che si sforza di essere figurativo. In un modo o nell’altro, Maccari è un pittore di sole essenze, più che di esistenze; di umori, più che di forme. Un pittore che bada alla sostanza, e la pittura deve essere per lui un mezzo per poter esprimere soltanto concetti, impressioni. E se volessimo vedere nei suoi dipinti un racconto, una trama, commetteremmo un errore grossolano, perché in essi è presente solo il fulgido ricordo di un’emozione. E in effetti, guardando i dipinti di Maccari si ha quasi la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di misterioso: è come se avessimo davanti a noi l’impronta di ciò che è stato, la traccia di una presenza. I dipinti hanno perciò la stessa consistenza dei ricordi, la stessa natura del sogno. Immagini improvvise, balenate per un attimo nella nostra testa, ma destinate troppo presto a scomparire ed essere inghiottite nel nulla.
Di diversa natura è il nudo di Capogrossi, una china su carta del 1945. Dopo la magnifica stagione della Scuola romana, contrassegnata da lavori di equilibrio impeccabile nati sotto il segno di Piero della Francesca e della pittura del Rinascimento italiano, Capogrossi si avvia verso una fase in cui alla figura preferirà la forma astratta. Gli anni Quaranta sono anni di transizione, e il linguaggio di Capogrossi comincia a perdere via via la sintassi classica degli anni Trenta per adottare un lessico più elementare e privo di regole. Le forchette andranno a costituire l’alfabeto di una lingua sconosciuta, indecifrabile, arcana; pittogrammi con cui Capogrossi continuerà comunque ad esprimere quell’equilibrio che aveva caratterizzato la stagione figurativa, ora forse con più immediatezza e senza più filtri. Ma prima di giungere alle forchette, Capogrossi indugia ancora sulle forme. È la fase neocubista, e la china di Rende, in qualche modo, ne è la testimonianza. Le linee essenziali tracciate sulla carta, qui, creano la sagoma di un corpo nudo di una donna. Quello che vediamo è un ricordo d’infanzia, come recita il titolo; e come in un ricordo, si sono conservati nella memoria pochi tratti, ma sufficienti per dare ancora un’emozione, un sussulto, un sospiro. Qui non c’è l’essenza di Maccari, ma – al contrario – la consistenza di un corpo che si offre in tutta la sua verità. Non c’è l’idea di femminilità, ma la femminilità di una donna particolare, singolare, unica.
Il percorso di Capogrossi assomiglia a quello di Mario Mafai. Anche Mafai ha cominciato con la figurazione per poi giungere gradualmente a eliminare del tutto la figura dai suoi lavori. Negli ultimi quadri non vediamo più volti, corpi, ambienti, ma solo materia pittorica, pigmento corposo, quasi come se si volesse accentuare il niente di un’esistenza distrutta e spezzata dalla guerra e dalla assenza di valori. Vediamo terre bruciate, dove non c’è più traccia dell’uomo; un mondo finito e perduto. Ciò che rimane è il titolo dell’opera che si aggiunge alla collezione del Museo di Rende; un’opera dell’ultimo Mafai. Un quadro intenso, drammatico, tragico, dove è assente ogni riferimento alla vita. Solo piccole pennellate di colore scuro, dal rosso al bruno, si mescolano e si sovrappongono a creare la fitta trama di un’umanità senza più speranza. Un’umanità che può soltanto vivere di nostalgia. Mafai fu molto criticato quando abbandonò la figurazione, ma lui andò comunque avanti; sapeva infatti che i tempi erano cambiati e che soltanto una pittura così immediata poteva esprimere la crisi dei tempi, la miseria della bellezza violata.
100 opere, dunque, ma potremmo anche dire 100 modi diversi per esprimere il secolo più tormentato e più controverso d’Italia, d’Europa, del mondo.