Il 18 febbraio scorso si è spento all’età di 87 anni Alessandro Mendini. Con il suo lavoro ha segnato in modo indelebile la storia del design mondiale. Nato a Milano il 16 agosto del 1931, Mendini si era laureato al Politecnico nel 1959 e, dopo un decennio di ricerca e di studio, si era affermato negli anni ’70 con la teorizzazione dell’architettura radicale che negava recisamente il passato e in particolare il Movimento Moderno.
Mendini è sempre stato un personaggio fuori dagli schemi, lontano anni luce dal precetto che ha guidato molti dei più rinomati designer del ‘900, ovvero che la forma segue la funzione. Tale postulato traeva origine e si era consolidato con il funzionalismo promulgato dal Bauhaus, la famosa scuola d’arte applicata fondata da Gropius nel 1919 e chiusa nel 1933, che aveva nel progetto e nella razionalità due elementi imprescindibili.
Valori che subirono un brusco ridimensionamento, anzi uno scossone epocale, con la crisi successiva alla Seconda Guerra Mondiale. Le tendenze seguenti iniziarono fin da subito a frammentarsi per raggiungere l’apice della crisi durante gli anni ’70. In mezzo, cioè negli anni ’50 e ’60, c’era stata un’effimera fase di transizione in cui sembrava che il benessere fosse alla portata di tutti. In questo clima propizio si è avuto a un sensibile picco di produzione che non poteva non rappresentare un interessante polo d’attrazione per i giovani designer.
Mendini invece ritorna a un concetto quasi vernacolare del design, di chiaro segno anti-internazionalista, con un occhio di riguardo all’artigianato. Non dimentichiamo che egli aveva vissuto appieno il periodo critico dei movimenti a forte matrice utopica. Infatti nel 1972 aveva fondato la Global Tools ed era diventato socio di Archizoom Associati e Superstudio, tutte realtà che propugnavano l’idea di un’architettura radicale che negava apertamente il passato. Tra i fattori preponderanti di questi fenomeni troviamo in primis la crisi del progetto, che non è più giudicato primario ed essenziale come prima. Sono gli anni in cui Giulio Carlo Argan parlava di morte dell’arte e l’apocalittico Manfredo Tafuri analizzava spietatamente il fenomeno, arrivando a sostenere che la progettualità di un qualsiasi manufatto fosse da lì in avanti da considerarsi utopica, non più reale e costitutiva dei processi di produzione della società.
Gli oggetti di Mendini hanno soprattutto una forte significazione ludica, cioè in sostanza sono giocattoli, come ha sottolineato egli stesso: «A me piace l’ironia, piace il gioco, mi piace stare molto lontano dalla retorica e pertanto faccio in modo che i miei oggetti esprimano queste cose, trasformandosi in un certo senso in giocattoli per adulti, che però abbiano in sé una mistica, un senso della ritualità, una coscienza di comportamento dell’uso e di una coscienza di gesti del vivere quotidiano».
Al contempo però si affermava che l’oggetto avesse nella sua ontologia un’accezione affettiva che lo rendeva unico per il suo possessore. È questa un’altra importante sfumatura che il design ha acquistato nel corso degli ultimi anni, anche se sarebbe meglio dire che ha ri-acquistato. Infatti noi consideriamo gli oggetti che ci circondano come parte integrante della nostra vita, sovente come una protesi, un prolungamento del nostro corpo; istituiamo cioè un legame emotivo con l’insieme dei prodotti con i quali abbiamo a che fare tutti i giorni. Come ci suggerisce Remo Bodei, occorre operare un distinguo tra cose e oggetti: le prime sono tutte quelle nei confronti delle quali instauriamo un rapporto di affetto, mentre i secondi sono quelli con cui veniamo a contatto in superficie e che al principio ci lasciano un senso di indeterminatezza, in altre parole sono assimilabili al concetto di merce data la loro impersonalità.
Nel campo del disegno industriale si tratta della conclusione del percorso avviato in Italia non soltanto da Mendini, ma anche da Ettore Sottsass e da Andrea Branzi e che nasce dalla crisi della modernità, dopo il crollo dei grandi dualismi ideologici e della preminenza dell’individualismo sulla socialità. A tutto questo va a sommarsi l’impasse della progettualità, ben rappresentata dalle prime esperienze del design radicale.
È da questi presupposti che nasce il cosiddetto design banale di Mendini che poi culminerà con l’apertura dello studio Alchymia e poi del gruppo Memphis (1981-1987), punto di riferimento internazionale per le tendenze del tempo. Gli oggetti disegnati da Memphis erano caratterizzati dall’aggregazione di materiali e forme molto diversi tra loro, relazionati da rapporti di contrasto e libera associazione di idee. Un esempio lampante in tal senso è quello della libreria Carlton di Sottsass del 1981, in cui si assiste alla disgregazione classica dei volumi e dei colori.
Al principio degli anni ’80 si assiste a un rinnovato interesse nei confronti dell’artigianato che permette al designer di creare, accanto alle più estese produzioni industriali, il pezzo unico, la serie limitata. Così infatti avviene per gli oggetti usciti dallo studio Alchymia cui lo stesso Mendini diede un contributo notevole. Sono di quegli anni due creazioni tra le più celebri: l’iconica poltrona Proust (1978) e il divano Kandissi (storpiatura voluta del nome Kandinsky, del 1979), oggetti che stanno in bilico tra il kitsch e l’estetica spinta alle prove più estreme.
Il comandamento di Alchymia si può riassumere così: che vale la de-specializzazione, ovvero l’ipotesi che debbano convivere metodi di ideazione e di produzione confusi, dove possano mescolarsi artigianato, industria, informatica, tecniche e materiali attuali e inattuali. Poco importa se alla base di questo procedimento sussiste l’anarchia del progetto (che comunque c’è ed è pur sempre necessario). Quello che conta sembra essere piuttosto la provocazione che gli oggetti suscitano nei confronti dello spettatore, in altre parole l’oggetto-merce non ha più nulla da dire e proprio per questo motivo può affermare ciò che gli pare.
Alla Triennale di Milano Mendini nel 2010 curò la mostra “Quali cose siamo?”, allestendo otto piattaforme disposte a emiciclo su ognuna delle quali era esposta una moltitudine di oggetti, in apparenza senza alcun legame logico tra di loro, ma che, in un modo o nell’altro, facevano parte della vita di tutti i giorni. Si può definire quella mostra una sintesi della poetica di Mendini, perché gli oggetti in questione erano molto distanti tra di loro come significato, quasi l’utopia di un effimero livellamento sociale che però è restato tale solamente sulla carta.
Infatti se nelle case di ognuno di noi si può trovare ad esempio lo spremiagrumi in melamina, così non si può dire dell’oggetto unico come il dipinto di Sambonet o quello di Munari. In questo caso alla domanda “Quali cose siamo?”, una risposta possibile è: quelle che ci possiamo permettere. Tuttavia, poiché viviamo in un’immensa Torre di Babele in cui, forse, il concetto di possesso sta pian piano vacillando, è per questo che siamo in effetti tutte le cose che ci circondano: non soltanto quelle che ci appartengono di diritto, ma anche quelle che osserviamo, con cui ci relazioniamo quotidianamente. Senza distinzione alcuna, come ci ha detto Alessandro Mendini.