Una mostra che si preannuncia epocale quella che Palazzo Reale di Milano ospiterà dal 12 marzo al 23 giugno: “Jean Auguste Dominique Ingres e la vita artistica al tempo di Napoleone”, curata da Florence Viguier-Dutheil, avrà Ingres come protagonista, ma non sarà una mostra interamente su di lui, ovvero non sarà monografica se non nell’ultima parte. Delle oltre centocinquanta opere esposte infatti, sessanta sono dell’artista francese, molte delle quali prestate dal Musée Ingres du Montaubaun. Le altre provengono da alcune delle più grandi collezioni di tutto il mondo come il The Metropolitan Museum of Art di New York, il Columbus Museum of Art dell’Ohio, il Victoria and Albert Museum di Londra, il Musée du Louvre, il Musée d’Orsay, il Petit Palais, Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris, e da grandi musei italiani come la Pinacoteca di Brera, la Galleria d’Arte Moderna di Milano, i Musei Civici di Brescia e ancora da collezioni private.
Quando si parla di quel determinato periodo storico che ha in Napoleone il suo dominatore incontrastato, non si può non pensare al Neoclassicismo e i nomi che ci vengono in mente, oltre ai suoi teorizzatori Winckelmann e Mengs, sono quelli di Jacques Louis David (1748-1825), di Antonio Canova (1757-1822) e di Jean Auguste Dominique Ingres (1780-1867). Sono loro a ispirare l’arte di quegli anni che rimanda alla purezza del disegno e alle forme greche e rinascimentali, sebbene valga la pena sottolineare che a fianco di questo fenomeno si svilupparono altre espressioni artistiche come ad esempio il pittoresco e il sublime, ma soprattutto il Romanticismo che sarà il vero “antagonista” del Neoclassicismo.
Due modi di intendere la realtà diametralmente opposti che hanno in comune solo un preciso e basilare rimando alla Storia. Infatti se il Neoclassicismo risponde a criteri razionali, nati come reazione alla libertà barocca e rococò, e prescrive un atteggiamento, pure morale, tale per cui il pubblico deve prevalere sul privato, nel Romanticismo si ritorna all’idea dell’arte come ispirazione, «intuizione lirica della natura», come dirà più avanti Benedetto Croce, perciò con un’inclinazione più individuale.
«Talento, avaro, crudele, collerico, sofferente, straordinario miscuglio di qualità in contrasto, messe tutte quante al servizio della natura, e la cui stranezza non costituisce di certo una fra le cause minori del suo fascino: fiammingo nella stesura, individualista e naturalista nel disegno, volto all’antico per congenialità, idealista per ragionamento». Sono le parole con cui Charles Baudelaire definiva Ingres nel 1846, nove anni prima di preferirgli definitivamente Delacroix nell’Esposizione Universale del 1855. Una sentenza che ha influito per parecchio tempo nella percezione del pubblico votato all’arte.
In effetti Baudelaire contribuì non poco al giudizio per larga parte spregiativo del Neoclassicismo. Ci vorrà un secolo per una sua osservazione più obiettiva, tale da portarlo in una posizione non più guidata dal gusto e dalla partigianeria, ma dall’interpretazione storico-artistica. È ciò che intende proporsi la mostra di Milano, città coinvolta in prima persona dagli avvenimenti di quegli anni quando fu rimodellata nei suoi monumenti, nei suoi spazi verdi e nelle infrastrutture urbane, a partire dalla nuova Pinacoteca di Brera.
Ma Ingres fu davvero neoclassico a tutti gli effetti? La risposta non è così scontata come sembra. Tralasciando le valutazioni apologetiche, riportiamo la lettura che ne diede Giulio Carlo Argan, secondo il quale Ingres non lo fu affatto. Perlomeno non nel senso rivoluzionario in cui lo fu David e in quello moderato di Canova. Ingres non aveva interessi legati all’ideologia o alla politica, né tantomeno al soggetto che poteva essere indistintamente classico o romantico. In pratica la sua ricerca era indirizzata alla forma che per lui doveva essere il più possibile vicina alla perfezione. Non a caso tra gli artisti del passato da lui prediletti c’erano Raffaello e Poussin, due maestri della linea limpida e del disegno cristallino.
Il cammino di Ingres sarà comunque documentato con dovizia di particolari a Palazzo Reale dove il percorso espositivo si svilupperà in varie sezioni. La prima parte mette in evidenza l’invenzione del nuovo linguaggio figurativo tra l’Ancien Regime e la Rivoluzione Francese di cui è protagonista David insieme ai suoi allievi più vicini. Poi ci sarà spazio per l’elaborazione del fantastico, del dramma e del ripiegamento melanconico di Gros e di Prud’hon. Non mancherà un omaggio alla pittrice Elisabeth Vigée Le Brun (1755–1842), dal 1774 ritrattista ufficiale della regina Maria Antonietta.
La campagna d’Italia e Napoleone sono protagonisti delle sezioni successive, con alcuni famosi ritratti tra cui quelli di Appiani. All’altra capitale dell’Impero sono dedicate opere di Greuze, Canova, Gerard, Finelli, con alcuni disegni di Ingres. Una sala è riservata alla figura di Giovanni Battista Sommariva, a partire dal ritratto di Pierre Paul Prud’hon e dalla Tersicore di Canova. Si arriva quindi al solenne e magnifico ritratto di Napoleone in costume sacro, preceduto da una serie di disegni preparatori di Ingres.
È nella parte finale che la mostra assume un carattere monografico ed è costituita in larga misura da opere di Ingres eccezionalmente provenienti dal Museo di Montauban, a partire da una serie di straordinari ritratti maschili, seguiti da un nucleo di disegni e poi di ritratti femminili, di Veneri e di Odalische, oltre ad un dipinto del 1818 che rappresenta la morte di Leonardo da Vinci, tanto più significativo nell’anno in cui si celebra il suo quinto centenario.
In conclusione la mostra intende dimostrare in che modo il preteso classicismo di Ingres sia un’illusione, rivelando il colorista che è dietro il disegnatore e mostrando la sua pittura religiosa insieme alle scene “trobadoriche” in prossimità di odalische dai lunghi colli e dalle anche salienti (vedi La bagnante di Valpinçon del Louvre). Riportare alla luce l’artista che per anni è stato soffocato dalle strette maglie del giudizio di Baudelaire, per il quale Ingres era «sprovvisto del vigore che determina la fatalità del genio», è una severità anacronistica che oggi bisogna perdonare e correggere.