Al Museo Novecento di Firenze, fino al 28 febbraio prossimo è allestita la mostra “Iniziare un tempo II”, dedicata a Gianni Caravaggio che, ancora una volta, rievoca il lessico manzoniano degli Achromes sintetici al filo di nylon, o quello delle linee orientate verso l’infinità del tempo, la sola dimensione possibile e pensabile per l’artista e che rappresenta il terzo appuntamento del ciclo “Duel”, ideato da Sergio Risaliti, direttore artistico del museo fiorentino, che invita un artista contemporaneo a porsi in dialogo con un’opera proveniente dalla collezione civica oppure da una delle mostre temporanee. Così, questa mostra, sembra avvalorare il principio-speranza di una salvifica prassi dell’immaginazione, la formula combinatoria delle nostre certezze fisiche e psichiche, laddove peso, sostanza, forma, colore e memoria delle cose trovano declinazioni che appaiono impossibili ma che occorre accostare e comprendere, mettendo in questione il mistero, lanciando i dadi e rimescolando i mondi. All’infinito.
A rievocare il celebre colpo di dadi di Mallarmé, il gesto poetico che sfida il caso ma che tuttavia jamais n’abolira le hasard, la relazione tra Base magica (1961) di Piero Manzoni e l’opera Giocami e giocami di nuovo (1996) di Gianni Caravaggio (Rocca San Giovanni, 1968) definisce lo spazio illimitato della possibilità, del sempre nuovo e imprevedibile mutamento dell’esistenza.
In piedi sulla base manzoniana, la vita si riversa nell’opera, nella scultura, accedendo a quella zona aurorale che riedifica la distanza tra il banale e l’assoluto. Ogni volta nuovamente l’artista rifà il mondo e mai a sua immagine, bensì lasciando che le cose accadano ed evolvano oltre il suo controllo. Similmente, nel lavoro processuale di Gianni Caravaggio, è lo spettatore a muoversi attorno a quattro orbite celesti (gli strati di tessuto sovrapposti a pavimento) e a “lanciare i dadi”, riversando sull’azzurro le cinque minute sculture con cui l’artista ha fissato nel bronzo la forma dei continenti.
La mostra prosegue poi configurando un secondo paradosso, questa volta tutto interno alla concezione stessa della materia scultorea e delle sue proprietà essenziali. Come nell’opera “Il mistero nascosto da una nuvola” (2013-18), un grande blocco di granito sommerso, nella sommità di un angolo, dalla polvere effimera di zucchero a velo, nella quale la gravità del materiale si presta in favore di una velatura sottile e candida, presenza incorporea che appena si posa per dissolvere e annullare il volume della scultura, consegnandola a una nuvola, all’essenza quasi-nulla della polvere. A pochi passi, oltre il varco di una parete che ospita un gruppo molto significativo di disegni a grafite dell’artista, l’inversione della regola è compiuta, l’assenza si sostanzia: con l’opera “L’orizzonte si posa su una nuvola mentre il sole la attraversa” (2015-18) il grande cumulo composto da chilometri di nylon trasparente genera una massa lieve e inconsistente che pure mostra la sua solidità, segnata dall’azzurro di un filo che disegna, in superficie, i contorni e le sue vette. È la traccia di un orizzonte instabile in grado di sormontare la luce del sole che appare e scompare al di sotto di quel gigante vaporoso e pallido posato in terra.