Il desiderio e la voglia di Jean Metzinger di diventare artista sono paragonabili alla furiosa ostinazione di Charles Crupelandt nel tagliare davanti a tutti la linea del traguardo di una corsa che per la sua durezza è chiamata “Inferno del Nord”. Vincitore della Parigi-Roubaix del 1912, soprannominato il “Toro del Nord” a causa della sua prestanza fisica, necessaria per domare le aguzze pietre del pavé, e – dicono – per la sua predisposizione a menare le mani ogni volta che se ne presentava l’occasione, Crupelandt ha incrociato e ispirato, inconsapevolmente, il cammino di Metzinger.
Crupelandt è stato il primo velocista nel senso moderno del termine, capace di sviluppare negli ultimi metri una potenza straordinaria. In dieci anni di professionismo ha vinto parecchio sia su strada che su pista, ma i due allori che lo hanno consegnato alla storia sono senza dubbio quelli conquistati a Roubaix, il primo dei quali ha spezzato il triennio dominato da Octave Lapize, colui il quale aveva avuto l’ardire di gridare “assassini” agli organizzatori del Tour de France quando gli avevano fatto scalare per la prima volta il Tourmalet, salita dei Pirenei che risulta ostica pure oggi alle leggerissime biciclette in carbonio.
C’era pure Lapize nel gruppo dei sette, regolato da Crupelandt in quella memorabile edizione del 1912. Il “Toro del Nord” fece meglio nel 1914, ultimo anno da corridore per lui, quando di avversari pronti ad arpionargli la scia ne mise in fila ben dieci. La Parigi-Roubaix venne poi sospesa per lo scoppio della prima Guerra Mondiale, durante la quale il fumantino corridore francese si rese protagonista in negativo di alcune risse da bar. Purtroppo per lui i colpi di mano non gli diedero le stesse soddisfazioni di quelli di pedale. Fu il punto di non ritorno, difatti Crupelandt prese la decisione di abbandonare per sempre il ciclismo che tanta gloria gli aveva dato.
Dall’altra parte della Francia era invece nato Jean Metzinger, a Nantes per l’esattezza. Lì però ci rimase poco, giusto il tempo di lasciar scorrere in fretta i suoi vent’anni, perché in cuor suo aveva già ben delineato in testa che da grande avrebbe fatto il pittore e che Parigi doveva essere la sua patria di adozione. Del resto a quei tempi per un giovane fare l’artista a Parigi era un conto, farlo a Nantes un altro.
La sua risulta essere una scelta azzeccata, dato che, vuoi per il talento di cui si diceva poc’anzi, vuoi per le giuste conoscenze – che, è bene sottolinearlo, non arrivano mai a caso, specie per chi proviene da una famiglia conosciuta per avere avuto tra i suoi esponenti chi aveva combattuto per Napoleone – Metzinger diventa in breve tempo uno degli animatori della vita artistica parigina. Prima viene notato da Robert Delaunay che lo presenta al poeta Guillaume Apollinaire il quale a sua volta, intuendone le potenzialità, lo introduce nella cerchia di Georges Braque e di Pablo Picasso. Da lì l’adesione al Cubismo è naturale e spontanea. Cubismo come nuovo linguaggio, Cubismo come reazione alla produzione stantia e muffosa dell’Accademia, Cubismo infine come ricerca del dato spaziale.
Soprattutto Picasso esercita una fascinosa influenza nei confronti di Metzinger che non soltanto espone ai Salons in cui inizialmente i cubisti non sono visti di buon occhio (sorte comune di ogni avanguardia), ma dà il via a un’interessante produzione teorica che avrà il suo apice in “Du Cubisme”, scritto con Albert Gleizes in preparazione al Salon de la Section d’Or del 1912 che sancisce i principi cardine del movimento.
Metzinger è stato definito da una critica piuttosto severa un “cubista minore”. Giudizio ingiusto poiché egli ha avuto un ruolo di primaria importanza, seppur messo in secondo piano rispetto ai suoi ben più celebrati compagni. Caso vuole che un suo quadro risulti essere tra i più riconoscibili di tutto il Cubismo che – ricordiamolo – ha il suo manifesto nel quadro “Les demoiselles d’Avignon”, dipinto da Picasso nel 1907. Ci riferiamo a “Au Vélodrome”, olio su tela e collage, custodito dalla Fondazione Peggy Guggenheim di Venezia.
È stato realizzato nel 1912 e raffigura la vittoria di Charles Crupelandt in quella famosa Parigi-Roubaix di cui si diceva sopra. L’opera è una sintesi perfetta delle conquiste cubiste, primi tra tutti l’uso del collage, la scomposizione dei piani spaziali e il graduale abbandono della prospettiva tradizionale, quest’ultimo già avviato qualche anno prima da Cézanne, che infatti è uno degli artisti preferiti da Picasso e soci. Il corridore è fissato nel momento in cui taglia il traguardo, acclamato dalla folla che gremisce gli spalti del Velodromo e lo incita. Vale la pena sottolineare che Crupelandt era nato a Roubaix, perciò il tifo era pressoché scontato. Inoltre, essendo egli finora il primo e unico corridore ad aver vinto in casa, la città dove nacque e morì per onorarlo degnamente gli ha poi dedicato l’ultimo settore di pavé, quello prima di entrare nel leggendario Vélodrome.
Giovanni Battistuzzi in una delle sue invitanti storie pubblicate su “Girodiruota” ha scritto che mentre Crupelandt stava fulminando i suoi compagni di fuga stantuffando a più non posso sui pedali (per dote e forse perché più avvezzo di loro alla pista), Jean Metzinger era in tribuna a godersi lo spettacolo. Non sappiamo se effettivamente sia andata così (ipotesi da non scartare dato che Metzinger era un appassionato di ciclismo, sport a cui dedicò altri lavori) o se Crupelandt negli anni a venire abbia avuto l’occasione di ammirare il quadro che consegnava la sua vittoria ai posteri, rendendolo al tempo stesso simbolo del ciclismo dei pionieri e inconsapevole immagine iconica del Cubismo. Ciò è secondario. Sappiamo però che è sulla superficie bidimensionale di 130×97 cm che i destini dell’artista e del ciclista si sono incontrati. Lì Mezinger ha eternato Crupelandt. Sull’asfalto Crupelandt ha messo un mattone alle fondamenta di quel monumento che risponde al nome di Parigi-Roubaix. Da lì a qualche anno tutto sarebbe cambiato: la guerra bussava alle porte dell’arte, dello sport e della vita.