Non è facile – per chi stima di essere un buon conoscitore dell’arte cosiddetta contemporanea, non avendo avuto però alcuna conoscenza diretta delle cose di cui stiamo per parlare – rendersi conto di quale sia stato, nel 1948, lo shock provocato nell’ambiente artistico veneziano dall’inclusione nella Biennale d’Arte della prima personale in Italia di Pablo Picasso e di artisti della collezione di Peggy Guggenheim, come Arshile Gorky, Jackson Pollock, Mark Rothko e altri, che portavano gli esiti di ricerche le più avanzate. Questo, almeno, è entrato a fare parte della nostra storia del secolo definito “breve” nel libro così intitolato di Eric Hobsbawm.
Noi, tuttavia, competevamo in grande, con lo schieramento del Fronte Nuovo delle Arti, coordinato dal critico Giuseppe Marchiori; e in più, isolato, c’era Lucio Fontana, rientrato a Milano dalla natia Argentina, dove aveva trascorso gli anni di guerra. Portava con sé i prodromi di un movimento detto Spaziale, impostato su principi condensati nel manifesto definito “Blanco” nel testo originario in lingua spagnola, la cui impostazione fu notata e apprezzata da Carlo Cardazzo, titolare delle gallerie del Cavallino a Venezia e del Naviglio a Milano: sedi divenute in breve operative, dove s’incontravano gli aderenti al movimento e da
dove furono emanati i successivi otto manifesti, datati tra il 1947 e il 1958. Tra i firmatari di uno o più di essi, sette erano veneziani di nascita o per elezione (Edmondo Bacci, Mario Deluigi, Bruno De Toffoli, Virgilio Guidi, Gino Morandis, Tancredi Parmeggiani e Vinicio Vianello), mentre altri cinque (Ennio FInzi, Luciano Gaspari, Bruna Gasparini, Riccardo Licata e Saverio Rampin) partecipano in qualche modo alle loro iniziative e, in parte, alle loro mostre. Il ricordo che ne porto nel cuore è legato ai contributi che tutti hanno dato alle mie iniziative, con cartelle di stampe fatte insieme.
È con circa centoquaranta delle loro opere, e con una rimarchevole presenza di Fontana, che Giovanni Granzotto ha organizzato la mostra “Spazialisti a Venezia”, aperta fino al 16 settembre negli spazi espositivi della fondazione Bevilacqua La Masa in Piazza San Marco e del Palazzetto Tito (sestiere di Dorsoduro, dall’altra parte del Canal Grande). Mostra che, secondo il presidente della Fondazione Bevilacqua la Masa, Bruno Bernardi, è “la più grande in Italia, per numero e importanza delle opere esposte, dopo quella curata negli stessi ambienti con i medesimi ar
tisti da Toni Toniato trentun anni fa”. A essa si aggiunge una scelta delle serigrafie tratte dalle loro opere e stampate dal toscano venezianizzato Fiorenzo Fallani, nel laboratorio da lui creato – che fu fucina di ricerche tecniche allora senza uguali – esposte nelle sale del Forte Marghera, non lontano da Mestre, dai figli che continuano a gestire l’impresa paterna. Per la durata della mostra, funzionerà, per artisti ancora inesperti e per un pubblico amatoriale, un limitrofo laboratorio divulgativo delle tecniche serigrafiche.
La spartizione di dipinti tra la sede di Piazza San Marco e Palazzetto Tito è impostata sul principio di concentrare in quest’ultimo esempi di particolare interesse nella panoramica generale del Movimento: come l’insieme delle Marine spaziali di Guidi o le testimonianze di studi recenti realizzati nell’area degli Spaziali; caso concreto, alcune Germinazioni di Luciano Gaspari, che Elsa Dezuanni ha spostato, in base a rigoroso confronti stilistici, dagli anni 1958-’60 agli intorni del 1970.
È inevitabile che di fronte alla varietà di opere molti visitatori, per i quali lo Spazialismo è argomento di scoperta, si chiedano quale sia lo stile su cui sono improntate queste opere. Ebbene, la caratteristica basilare del movimento è proprio l’assenza di qualsiasi accordo in tal senso tra gli artisti: quel che doveva guidare il loro fare era, infatti una totale libertà ideologica e stilistica, orientata unicamente sugli sviluppi della cultura tecnologica e dei concetti relativi al vivere nella dinamica dello sterminato contesto mondiale.