Era il 1912 quando l’allora ventiduenne Emmanuel Rudnitzky di Filadelfia decise che da quel momento in avanti si sarebbe chiamato con il nome che poi lo avrebbe fatto passare alla storia: Man Ray, cioè Uomo Raggio. In quegli anni l’artista americano si trovava a New York ed era principalmente disegnatore e grafico. La prima macchina fotografica fu acquistata nel 1914 con lo scopo di documentare le sue opere d’arte per un catalogo, quindi, almeno in principio, non come strumento espressivo. Lo diverrà negli anni a seguire, in special modo dopo l’incontro che cambierà il corso della sua vita, quello con Marcel Duchamp. Anche se, per sua stessa ammissione, il primo committente in assoluto è stato Francis Picabia.
Dall’8 aprile al 7 ottobre Man Ray sarà il protagonista della mostra “Wonderful visions” curata da Elio Grazioli alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di San Gimignano, promossa dai Musei Civici della cittadina toscana e prodotta da Opera-Civita con la collaborazione della Fondazione Marconi. Oltre cento immagini fotografiche saranno esposte come facenti parte di un unico percorso unitario, disposte in ordine cronologico, per rimandare non ai generi e alle funzioni ma a quell’unico sguardo da cui nascono realmente.
La mostra testimonia, nelle sue tappe fondamentali e attraverso alcune delle opere più famose, il Man Ray fotografo, ma con un taglio particolare, solo apparentemente dato per acquisito ma in realtà sempre rimesso in discussione, ovvero quello che afferma l’equivalenza tra il fotografo artista, quello di moda, di pubblicità, di fotografia pura. Ciò che accomuna e lega in un unico gesto creativo è lo sguardo, quello che trasforma tutto in “meravigliose visioni”.
Universalmente noto come artista dadaista e surrealista, Man Ray è stato uno dei più grandi fotografi del XX secolo. Sperimentatore instancabile e maestro della re-invenzione. Prova ne siano i readymades dell’amico Duchamp, trasformati in “oggetti d’affezione” dal suo obiettivo che nel frattempo è divenuto a tutti gli effetti medium artistico. L’artista adotta in tal modo la pars construens della dissezione dadaista, rappresentata nella sua fase destruens dalla Gioconda coi baffi di Duchamp.
Per Man Ray i ritratti, gli autoritratti, i nudi, gli still life, le composizioni più complesse, ma anche la fotografia di moda, quella di pubblicità acquisiscono un nuovo significato. Da lì alle rayografie il passo è breve. Egli impressiona direttamente la lastra in camera oscura, senza servirsi della macchina, combinando oggetti selezionati per il loro valore evocativo e presi dalla quotidianità come ad esempio una chiave, una pistola, un ventaglio, un braccialetto e via dicendo.
Nel 1922 dodici rayografie furono raccolte nella cartella “Les champs délicieux” con saggio introduttivo di Tristan Tzara. Con questo espediente tecnico Man Ray esplora l’inversione e la sovversione degli elementi formali della fotografia: l’ottica, la luce e il processo chimico «creano una superficie/spazio, un’opacità/trasparenza». Inoltre attinge esplicitamente dal linguaggio cinematografico che proprio allora stava sperimentando nuovi esercizi formali. Lo stesso Man Ray si cimentò come regista in “Le retour à la raison” del 1923, “Anémic Cinéma” con Marcel Duchamp del 1925, “L’étoile de mer” del 1928, solo per citare alcuni titoli.
Poi ci sono i ritratti, anche qui non convenzionali. C’è quello androgino di Duchamp (1921) o “Violon d’Ingres” dove la donna girata di schiena, Kiki, ricorda chiaramente un violoncello o ancora “Noire et blanche” (1924), omaggio a Brancusi, con il volto bianco della modella (sempre Kiki) affiancato a una maschera tribale africana (1926) che fonde un’immagine contrastante della bellezza femminile: qui siamo già in pieno Surrealismo.
In conclusione calzano a pennello le parole che ha pronunciato una volta lo stesso Man Ray a proposito della sua fotografia: «Ho tentato di cogliere le visioni che il crepuscolo o la luce troppo viva, o la loro fugacità, o la lentezza del nostro apparato oculare sottraggono ai nostri sensi. Sono rimasto sempre stupito, spesso incantato, talvolta letteralmente ‘rapito’». Un temporaneo sconfinamento “romantico” che però serve a farci capire quanto l’emozione sia necessaria nel procedimento artistico. Anche in piena avanguardia.