A Palazzo Zabarella di Padova, fino al 22 luglio è allestita una mostra dedicata a Joan Miró (Barcellona 1893 – Palma di Maiorca 1983) promossa dalla Fondazione Bano e dal Comune di Padova.
La mostra è composta da ottantacinque opere tra quadri, disegni, sculture, collages e arazzi provenienti dalla collezione di opere del maestro catalano di proprietà dello Stato portoghese. Fulcro della mostra, che spazia lungo sei decenni di attività, è la naturalezza fisica dei supporti impiegati dall’artista, nonché l’elaborazione dei materiali come fondamento della pratica artistica. Nella sua esplorazione della materialità, Miró allargò in maniera decisiva i confini delle tecniche di produzione artistica del ventesimo secolo.
Oltre a questa esplorazione dei materiali, egli sviluppò un linguaggio dei segni innovativo, che modificò il corso dell’arte moderna. In un processo di trasformazione morfologica, nell’arte di Miró gli oggetti assurgono allo status di segni visivi: negli arazzi le matasse di filo possono sostituire schizzi di colore; il fil di ferro dei primi collages rappresenta spesso la linea disegnata, mentre talvolta la carta riformula le caratteristiche fisiche della tela in quanto supporto. In senso molto lato, la morfologia è il principio operativo del lavoro di Miró: tutto è in uno stato di flusso e cambiamento permanenti, man mano che l’artista esplora le possibili equivalenze tra i mezzi. Ma sebbene la morfologia si definisca come una variazione della forma, della sostanza e della struttura fisiche, non è tuttavia nella scienza o nella biologia che vada cercata la chiave interpretativa dell’arte di Miró, bensì nella trasformazione e nella logica interna dei suoi metodi di lavoro. Nel duplice ruolo di artefice e trasgressore della forma del modernismo del Ventesimo secolo, pittore e antipittore al tempo stesso, Miró sfidò il concetto stesso di specificità del mezzo.