Lo spazio espositivo e laboratorio delle Officine Saffi ospita fino al 17 gennaio prossimo una piccola mostra dedicata alle opere di Carlo Ramous (Milano, 1926-2003), nella quale sono esposte alcune sculture degli anni ’50, tra classicismo e sperimentazioni cubo-primitiviste, che dialogano con tecniche miste degli anni ’70, testimonianza della grande sensibilità spaziale dell’artista. Completano la mostra diverse spille in ceramica del 1953, una produzione di sculture da indossare.
Il testo critico di Alessandra Quattordio ripercorre tutti gli anni della produzione artistica di Ramous, partendo dalla fine degli anni Quaranta-inizio Cinquanta, ossia dalle opere in terracotta a soggetto antropomorfo con una inclinazione alla mutazione formale. A questo stesso periodo, nel 1953, risale la nascita delle prime spille in ceramica smaltata che riconducono al mondo muliebre sia per finalità ornamentale sia per scelte tematiche, nei soggetti e nei decori e realizza volti, maschere, arcieri, gatti, colombe su placche di qualche centimetro di diametro, caratterizzate da un segno creativo che determina piccoli monili.
Dalla fine degli anni Cinquanta, poi nei Sessanta e nei Settanta e in collaborazione con gli architetti Mario Tedeschi, Carlo Bassi, Goffredo Boschetti, realizza opere di maggiore impegno in cui scultura (in cemento o terracotta) e architettura si integrano in un’armoniosa complementarietà di impronta figurativa, astratto-informale o brutalista, come nel caso dello stabilimento tipografico Cino del Duca, edificato a Blois nel 1961 su progetto dell’ingegnere Tullio Patscheider.
Anche la pittura rimane per Ramous di grande interesse e soprattutto le sue realizzazioni volte alla ricerca e alla sperimentazione. Infatti, sono opere nelle quali sono fusi materiali che, insieme, raramente trovano applicazione su superfici bidimensionali: tela, carta, legno, cellophane, pigmenti minerali, ferro, materie combuste. Sono un esempio “Sogno” del 1971, i cui grafismi si disegnano su juta grazie a combustioni, o l’opera di sapore architettonico “Senza titolo” (1981), in cui china, carta, cellophane si traducono in saggio compositivo di poetico impianto strutturale, in una sintesi che riassume la molteplicità di esiti espressivi volti ad abbattere i confini fra arte e arte, materia e materia, linguaggio e linguaggio.