«Pozzati è uno dei pittori più consapevoli del proprio fare e della funzione dell’arte nella società: è un pittore che regge sempre sulla tensione delle immagini, sulla loro apparente violenza che però, a ben riflettere, propongono sempre una visione ironica, sospesa del mondo». Sono le parole con cui Arturo Carlo Quintavalle ha ricordato Concetto Pozzati, scomparso a Bologna il 1° agosto all’età di 81 anni. I due erano legati da profonda amicizia, tanto che nel 2002 Quintavalle aveva dedicato all’artista una monografia a corredo della mostra organizzata nelle Scuderie della Pilotta a Parma. Proprio di recente nella città ducale lo CSAC (Centro Studi e Archivio della Comunicazione) aveva omaggiato l’artista con l’allestimento della serie di dipinti “Ciao Roberta”.
Pozzati era nato il 1° dicembre del 1935 a Vo’ Vecchio, piccolo comune alle pendici dei Colli Euganei noto per l’estrazione della trachite, la pietra che andrà poi a trasformarsi nei “masegni” che lastricano la pavimentazione di Venezia. La prima formazione di Pozzati avviene in una Bologna che risente ancora dell’influsso di Giorgio Morandi e di Francesco Arcangeli. In quegli anni però la pittura si accinge a intraprendere altre vie più indirizzate verso l’internazionalismo, ragion per cui il giovane artista, mosso da comprensibili impulsi di conoscenza, decide di trasferirsi a Parigi dallo zio Sepo (Severo Pozzati) il quale fu tra gli artefici del passaggio del manifesto dalla decorazione alla comunicazione.
Nella “Ville Lumière” Pozzati ha l’opportunità di confrontarsi con le ultime tendenze, prima tra tutte l’Informale dei francesi Fautrier e Dubuffet. Siamo a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60: se in Europa l’arte sta facendo i conti con le avanguardie, dall’altra parte dell’Oceano, in America, prende piede la Pop Art che in Italia viene declinata soprattutto per quel che riguarda il discorso critico alla società dei consumi. L’incontro ufficiale avviene nel 1964, anno in cui si tiene la 32ma Biennale d’Arte di Venezia, un punto di rottura per la generazione di Pozzati che nel frattempo si divide tra Roma e Milano, ovvero tra l’inquietudine di Mario Schifano e la pacatezza di Emilio Tadini.
Tra queste due tensioni Pozzati riesce a sviluppare una poetica tutta sua che sovente si arma di citazioni, mai pedestri o fini a sé stesse, ma coscienti e mature. Gillo Dorfles ha parlato di «figurazione naturalistico-surreale», definizione che bene si attaglia a un’opera come “Per una possibile modificazione”, esposta nella sezione delle nuove tendenze curata da Maurizio Calvesi alla già citata Biennale del 1964. Opera che è divisa in due piani: sopra tre frutti, cioè la natura morta cara prima a Cézanne e poi a Morandi, sotto gli identici soggetti, riconoscibili dalle forme, rappresentati però in modo non realistico, bensì onirico, di un surrealismo che guarda verso Magritte.
Alla sua vita artistica, che lo ha visto partecipare alle maggiori kermesse internazionali come ad esempio documenta di Kassel, Pozzati ha affiancato un’intensa attività didattica (lo troviamo docente alle Accademie di Urbino, Firenze, Venezia e Bologna), finanche politica (assessore alla Cultura al Comune di Bologna dal 1993 al 1996). Ai suoi studenti ha insegnato il linguaggio della pittura e la libertà di pensiero, così come l’ironia che per lui è sempre stata un elemento imprescindibile della sua arte. In un’intervista rilasciata qualche anno fa Pozzati ha dichiarato che «è come mettere un filtro, un distacco alle cose, alla soggettività. È guardare la propria opera vedendola attraverso altri occhi, in modo libero, riconoscendone anche i limiti. Anche nei titoli delle mie produzioni intervengo spesso con il gioco, il lato ironico di chi vuole essere consapevole e obiettivo nei confronti del proprio lavoro». Dunque non c’è consapevolezza senza ironia. Il rigore creativo di chi sapeva che in fondo era meglio non prendersi troppo sul serio.