È in corso di svolgimento “Viva Arte Viva”, la 57ma Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. La cura Christine Macel che l’ha costruita interamente attorno agli artisti, «sulle forme che essi propongono, gli interrogativi che pongono, le pratiche che sviluppano, i modi di vivere che scelgono». Possiamo dire che la sua è stata una scelta azzeccata, a cominciare dal percorso espositivo, suddiviso in Padiglioni, che si dipana attraverso le sedi dei Giardini e dell’Arsenale (aperto nel 1980 da Paolo Portoghesi in occasione della prima Biennale di Architettura) con le Corderie, Artiglierie, Gaggiandre e Giardino delle Vergini. Senza dimenticare le partecipazioni nazionali, gli eventi collaterali, i progetti speciali e quelli paralleli tra cui “Tavola Aperta” dove gli artisti a turno incontrano il pubblico durante un pranzo.
Christine Macel è fortemente convinta che oggi l’umanesimo sia messo in pericolo dagli sconvolgimenti mondiali. Ci riflette sopra e non cerca di dominarlo, stravolgerlo e imporlo come vuole fare Damien Hirst a Punta della Dogana e a Palazzo Grassi con la monumentale ed eccessiva mostra “Treasures from the Wreck of the Unbelievable” che a tratti diventa una parodia del neoclassicismo. Il paradigma della Macel è lo stesso che muove il principe Miškin di Dostoevskij, cioè che “la bellezza salverà il mondo”, anche se in questo caso per la curatrice francese saranno gli artisti a farlo, guidati dai nove episodi che raccontano la complessità della contemporaneità e che aiutano a relazionarsi con l’altro, presupposto fondamentale per la sopravvivenza dell’uomo. I nove episodi altro non sono che i Padiglioni: degli Artisti e dei Libri, delle Gioie e delle Paure, dello Spazio comune, della Terra, delle Tradizioni, degli Sciamani, il Padiglione dionisiaco, dei Colori, del Tempo e dell’Infinito. Una narrazione che vuole essere consapevolmente frammentaria, non omogenea, così come lo è quella attuale che sta superando non senza difficoltà e patimenti il postmoderno, senza sapere di preciso dove arriverà.
A nostro avviso, tra i tanti protagonisti di “Viva Arte Viva” (impossibile per ovvie ragioni elencarli tutti) chi appaga la visione dell’arte “viva” della Macel è Lee Mingwei, artista di Taiwan che lavora tra New York e Parigi. Mingwei è presente sia ai Giardini, dove ha ideato una suggestiva performance, che all’Arsenale in cui opera in prima persona nel Padiglione dello Spazio Comune. Costante delle due installazioni è il tema del dono visto come pratica della partecipazione, ma anche come situazione effimera o durevole agita nel tempo. In “When Beauty Visit” un visitatore è invitato a sedersi su una sedia situata nel giardino progettato da Carlo Scarpa nel Padiglione Centrale. Lì non solo ha la possibilità di godersi appieno il capolavoro dell’architetto veneziano, ma riceve un regalo da chi lo accoglie, una donna vestita con abiti tipici orientali e dei sonagli alle caviglie che ripete ossessivamente lo stesso gesto con una lentezza quasi esasperante. Unica condizione richiesta è che non potrà aprirlo subito, bensì solo dopo, cioè quando si troverà ancora di fronte a qualcosa di bello ed emozionante. All’interno della busta sigillata con la ceralacca vi è la storia dell’incontro di un’altra persona con la bellezza, raccolta in precedenza dall’artista. Il dono diventa così un’esperienza unica, sia in termini oggettuali che immateriali, e crea un collegamento privilegiato tra chi lo ha fatto e chi lo ha ricevuto.
All’Arsenale invece Lee Mingwei è al centro di “The Mending Project”, performance attiva già dal 2009, proposta periodicamente. Si tratta di un’opera che muta nel corso dell’esposizione e che afferma l’idea di arte partecipativa e relazionale da lui promossa. Un lungo tavolo, due sedie (una per l’artista e una per l’ospite) e una parete su cui sono fissati parecchi rocchetti di filo colorato. Ai visitatori è chiesto di portare i loro vestiti, nuovi o vecchi non importa, e di sedersi in attesa che l’artista li rammendi. Una volta compiuta l’operazione gli articoli vengono disposti ordinatamente sul bordo del tavolo dove restano legati ai fili fissati sulla parete. Gli abiti, cioè degli oggetti personali, testimoniano il legame che è avvenuto con l’artista e più in generale con gli altri. Un processo che stimola con prepotenza il lato emotivo di chi vi prende parte e che, come ha preteso Christine Macel, ci interroga sul concetto di collettività e sul modo di costruire una comunità che si spinge oltre l’individualismo.
“The Mending Project” è propedeutica a “When Beauty Visit” perché Lee Mingwei mentre lavora con ago e filo sui vestiti dialoga con chi ha di fronte, gli chiede da dove proviene, cosa ne pensa dell’arte e della vita. In altre parole annota la sua storia che poi potrebbe finire anonima nella busta sigillata che verrà donata a chi in seguito parteciperà all’altra performance dei Giardini. Ma il destinatario dell’oggetto non saprà mai l’identità dell’uomo la cui storia Lee Mingwei ha deciso di tramandare. In questo aspetto sta la doppia valenza della sua arte, volatile sì, ma anche durevole perché, volenti o nolenti, il legame è stato creato. E chi lo ha creato se non l’arte?, che ci spiega Christine Macel «ci costruisce ed edifica. È un sì alla vita, certamente spesso seguito da un ma, in un momento di disordine globale».