Quest’anno Emilio Tadini avrebbe compiuto novant’anni, ma il celebre artista milanese, nato nel capoluogo lombardo nel 1927 e ivi scomparso nel 2002 in piena attività creativa, lascia un vuoto profondo della vita intellettuale della cultura italiana, giacché il suo impegno si riversava su diversi fronti: oltre la pittura, che dà tuttora maggior lustro visibilità al suo nome e al suo operato, Tadini resta fondamentale, per la ‘maestria inventiva’, come poeta, romanziere, saggista, ancora tutto da studiare e da riscoprire.
Rimosso abbastanza in fretta dal panorama artistico nazionale per oscure ragioni (destino peraltro comune a molte altre figure rappresentative delle neoavanguardie del secondo Novecento), Tadini viene però ‘tenuto in vita’ nel ricordo degli eredi che, a Milano, offrono al pubblico un luogo chiamato Spazio Tadini Casa Museo, in cui non solo sono esposte a rotazione tele, disegni, documenti, riguardanti l’artista, ma vengono intraprese diverse iniziative atte a perpetuarne il ricordo, la memoria, il valore e soprattutto l’attualità nel segno di un artista originalissimo. Infatti ancora oggi si fatica collocare lo stile di una persona geniale che resta sul figurativo sino in fondo, dall’inizio alla fine di una carriera abbastanza lunga e ricca di soddisfazioni morali.
A giudicare l’opera pittorica, nella sua interezza, prevale in Tadini un tratto espressionista nella forma, mentre per i contenuti il gusto è assimilabile certi sviluppi della pop art sia americana sia europea (coeva del resto ai suoi primi successi), benché filtrata da un aplomb ironico, fiabesco, sottilmente dissacratorio che guarda anche all’esperienza delle prime avanguardie storiche (futurismo, dadaismo, surrealismo in particolare). L’originalità intrinseca dell’agire pittorico consente a Tadini di attraversare indenne due decenni di stravolgimenti epocali per l’arte moderna come gli anni ’70 con il concettuale e gli ’80 con il postmoderno, che segnano rispettivamente la negazione e il ritorno della pittura medesima.
In molti casi, addirittura, alcuni critici intravedono più o meno giustamente nell’arte stessa di Tadini elementi di concettualismo o di postmodernità, a seconda che i quadri o i disegni puntino sui giochi di parole o al contrario si concentrino su vivaci rappresentazione cromatiche dal taglio narrativo. Quel che è certo è che, forse consapevole della sua parallela attività di scrittore, Tadini a un certo punto inserisce sempre più vocaboli o frasi nelle proprie tele, quasi a creare una sorta di poesia visiva per riflettere sulle funzioni dell’arte medesima.
Per capire questo efficace singolare procedimento, viene in aiuto un libretto dal titolo Parole e figure (ma in copertina c’è anche riportato ‘testo & immagine’ con la grafia di Tadini): si tratta di un volumetto costruito partendo dalle carte inedite che il pittore negli anni Settanta raccoglieva a centinaia in appositi classeurs (i cosiddetti faldoni) di plastica amaranto: fogli insomma con appunto e citazioni, segni e colori, schizzi e disegnini, che consentono di avvalorare l’ipotesi di Umberto Eco, secondo cui l’amico Emilio è uno “scrittore che dipinge, pittore che scrive”.
Le cinquanta carte selezionate da Matteo Bianchi e Carolina Leite vengono commentate una a una dallo studioso Arturo Carlo Quintavalle che, alla fine, invita a “cogliere il peso e l’innovazione della disgiunta, mai parallela scomposizione delle immagini e delle parole, cogliendo magari, anche solo negli intervalli fra le ‘scritture’, nei caratteri, nella scansione degli spazi, nella riduzione delle ‘figure’, una genialità, una maestria inventiva che stata di pochi, anzi pochissimi, nel Novecento”.