Una volta Giulio Carlo Argan si recò a Parigi per una mostra in cui esponeva anche Jannis Kounellis. Argan si fermò davanti a “Sacchi e semi” e disse a Kounellis: «Per me, questo tuo lavoro ha un limite: è così bello che pare un Morandi». Ma Morandi agiva sulla tela, quindi sulla bidimensionalità, mentre quella di Kounellis era un’installazione in cui gli oggetti in scena occupavano uno spazio tridimensionale, sei sacchi di iuta posati a terra con delle sementi al loro interno. Argan ammirò la combinazione di colori, ma si rese subito conto che non era quello lo scopo voluto dall’autore il quale era allora “poverista” a tutti gli effetti, ma comunque attento alla qualità formale delle sue opere. Caratteristica non a caso subito notata da Argan che, per sua stessa ammissione, aveva qualche difficoltà a rapportarsi con l’arte contemporanea.
Jannis Kounellis si è spento il 16 febbraio all’età di ottanta anni. Nato in Grecia, nella città di Pireo, il 23 marzo del 1936, ventenne si era trasferito in Italia per studiare all’Accademia di Belle Arti a Roma sotto la guida di Toti Scialoja che gli fece conoscere l’espressionismo astratto e successivamente l’arte informale, due capisaldi della poetica del giovane Kounellis. Tra le prime partecipazioni di rilievo il Premio Lissone nel 1961. Nel frattempo la XXXII Biennale di Venezia apriva le porte alla Pop Art e la consacrava a livello internazionale. Per gli artisti italiani fu l’illuminazione, sebbene per molti di loro si tratterà soltanto di una fase di transizione verso altre ricerche. È il caso appunto di Kounellis che nel 1960 si era goduto la sua prima mostra alla galleria La Tartaruga di Roma. Si arriva al 1966 quando nell’altra importante galleria della capitale, La Salita, viene invitato Richard Serra che piazza in sala animali imbalsamati e animali vivi in gabbia. Le polemiche non mancano, ma Kounellis comprende immediatamente il significato del gesto che rielabora nel 1969, anno in cui nell’Attico di Fabio Sargentini realizza una delle sue opere più note, “Dodici cavalli vivi”, dove i quadrupedi sono attaccati al muro per la cavezza: azione che spettacolarizza la relazione che più interessa a Kounellis, vale a dire quella tra arte e natura.
Seguono alcune collettive come “Lo Spazio degli Elementi: Fuoco, Immagine, Acqua, Terra” del 1967 assieme a Pino Pascali, Umberto Bignardi, Piero Gilardi, Michelangelo Pistoletto e Mario Schifano. È lì che l’artista propone “Margherita di fuoco”, tavolette di metaldeide accese e fiamme ossidriche su lastre di ferro. Nello stesso anno Germano Celant su “Flash Art” pubblica l’articolo “Arte povera. Note per una guerriglia” in cui commenta, tra gli altri, anche il lavoro di Kounellis. «L’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire non l’opposto», scrive un battagliero Celant che da quel momento in avanti fagocita il panorama dell’arte italiana: Torino, Roma, Bologna, Milano, Napoli. Sono pochi i centri che possono dire di non avere ospitato una mostra di Arte povera.
Tra il 1970 e il 1973 l’artista greco coinvolge musicisti e ballerine che mette a danzare e suonare, componendo in tal modo veri e propri quadri viventi. Negli anni ’80 torna a interessarsi agli animali imbalsamati (anticipando Damien Hirst), uccelli trafitti e quarti di bue macellati illuminati da lanterne a olio, che simboleggiano la fine di ogni libertà. La natura non è più viva, ma cristallizzata a uso e consumo di una società che secondo Kounellis se ha intenzione di sopravvivere «nell’oceano di globalizzazione approssimativa», non deve in alcun modo perdere l’identità e i legami. «Quella condizione o la morte!», tuona Kounellis che nelle opere più recenti infatti ha recuperato alcuni temi del passato a lui cari. I più miopi lo hanno tacciato di manierismo, ma il suo era soltanto un disperato tentativo di preservare un «alfabeto lungo duemila anni», drammatico ma ancora attuale.