We calli it Africa. Artisti dall’Africa Subsahariana


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Marcia Kure, Of Saints and Vagabonds #2, 2016. Collage, 76 x 56 cm. Courtesy l’artista e Officine dell’Immagine, Milano

di Luca Baldazzi

 

Sono quattro gli artisti dell’Africa Subsahariana chiamati da Silvia Cirelli a esporre le loro opere nella mostra “We calli it Africa”, fino al 2 aprile alla galleria Officine dell’Immagine di Milano. Essi sono: Dimitri Fagbohoun (Benin), Bronwyn Katz (Sudafrica), Marcia Kure (Nigeria), Maurice Mbikayi (Repubblica Democratica del Congo), tutti per la prima volta in Italia.

Dal titolo si desume il tentativo della mostra di esplorare attraverso le opere esposte le varie e diverse “Afriche”, gli innumerevoli universi sia culturali che estetici che popolano questo poliedrico panorama, mettendo l’accento sul rapporto fra arte e società contemporanea.

Il percorso inizia dai lavori del congolese Maurice Mbikayi (1974), la cui pratica artistica si concentra sull’impatto della tecnologia nel tessuto sociale africano, e sulla triste realtà delle discariche di rifiuti elettronici che stanno letteralmente avvelenando l’Africa. Alle installazioni realizzate interamente con materiali di riciclo tecnologico, l’artista affianca opere che indagano il tema del dandismo nella quotidianità congolese, un fenomeno molto diffuso che adotta, oltre a una certa eccentricità nell’abbigliamento, anche uno specifico modello etico.

Seguono i lavori di Marcia Kure (1970), che s’interroga invece sugli effetti del post-colonialismo e la conseguente frammentarietà identitaria e sociale. Il suo è un vocabolario estetico che punta su un immaginario poliedrico dove convivono tradizione, con molti i riferimenti alla pittura uli praticata dalle donne nigeriane del passato, e ispirazioni prettamente metropolitane, espressione invece di una cultura contemporanea.

L’intreccio di suggestioni spesso in contrasto fra loro torna anche nella pratica artistica di Dimitri Fagbohoun (1972), che spazia fra scultura, video e installazioni, spingendo verso un eclettismo grammaticale che esalta temi quali il ricordo, la politica, la religione e la dimensione poetica dell’esistenza. In una narrazione visionaria che gioca sugli equilibri fra visibile e non visibile, l’artista si confronta con la vulnerabilità dell’essere umano, esplorandone i processi di creazione e distruzione.

Infine, si incontrano le opere di Bronwyn Katz (1993), che stupisce con una ricerca artistica dal complesso potere immersivo. Al centro della sua cifra stilistica, l’importanza della terra come depositaria ma anche custode della memoria culturale sudafricana, una memoria che nasconde le cicatrici di una storia che ha visto prima il colonialismo e ora un feroce neocolonialismo economico. L’aspetto sensoriale risulta dominante nella trama estetica di questa talentuosa interprete, capace di svelare con timida urgenza, un universo che da privato, diventa ben presto collettivo.

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