Nell’incipit del suo libro più conosciuto e studiato, Leonardo Benevolo ha scritto che «una storia dell’architettura moderna ha il compito di presentare gli avvenimenti contemporanei nella cornice dei loro precedenti prossimi; deve quindi risalire nel passato quanto occorre per completare la conoscenza del presente, e per collocare i fatti contemporanei in una sufficiente prospettiva storica». Ed è proprio in tale direzione che si sviluppa la sua “Storia dell’architettura moderna”, il testo che chiunque abbia avuto a che fare con la storia della disciplina o dell’arte in generale prima o poi ha trovato sulla sua strada.
Leonardo Benevolo si è spento il 5 gennaio a 93 anni nella sua casa di Cellatica, paese ai piedi delle Prealpi bresciane dove si era ritirato da tempo. La notizia è passata quasi sotto traccia, come ha denunciato David Sassoli sul sito dell’Huffington Post. Un mancato riconoscimento per una delle persone che maggiormente ha vivacizzato e fornito spunti di ricerca al dibattito culturale italiano, soprattutto a partire dal Dopoguerra in avanti, quando il Paese era in piena fase di ricostruzione. Un periodo in cui la dialettica intorno all’architettura era animata da uomini come Bruno Zevi, Manfredo Tafuri, Giulio Carlo Argan. Benevolo a questo dibattito ha partecipato attivamente, non solo in qualità di storico, ma anche di architetto e urbanista. A lui ad esempio si devono i piani regolatori di Ascoli Piceno, di Monza, del centro storico di Bologna (dove ha progettato la nuova sede della Fiera), i quartieri di San Polo a Brescia e La Piantata a Urbino, solo per citarne alcuni. Senza dimenticare il piano di ricostruzione dei paesi spazzati via dal disastro del Vajont nel 1963.
Non è retorico né pleonastico affermare che generazioni di studenti si sono formate con gli insegnamenti di Benevolo. Nella “Storia dell’architettura moderna”, pubblicato la prima volta nel 1960 e, con aggiunte posteriori, arrivato a oltre trenta ristampe (nel 2006 il materiale raccolto aveva una portata talmente ampia da costringere l’autore a organizzarlo in un nuovo volume dal titolo “L’architettura nel nuovo millennio”), egli analizza le vicende del Movimento Moderno in ogni sua sfaccettatura, coinvolgendo realtà geografiche fino allora prese poco in considerazione, con un’attenzione specifica al contributo dei maestri e al peso delle vicende sociali e politiche nelle scelte progettuali.
Come ha ricordato il suo amico e collega Vittorio Gregotti sul Corriere della Sera parlando di valori e non di illusioni: «Leonardo Benevolo ha fatto delle complicate vicende dell’architettura moderna il più equilibrato racconto, senza illusioni intorno agli eroismi delle avanguardie e senza ideologie di concertazione populista. Con l’equilibrio di una soluzione critica positiva nei confronti con la realtà ma capace di muovere dalle contraddizioni verso la possibilità di una migliore verità del fare, che non rinuncia all’impegno intorno alla “poesia dell’abitare”».
Benevolo ha capito prima di ogni altro il passaggio dal Movimento Moderno all’International Style, nella fattispecie quando i modelli europei si sono affermati negli Stati Uniti. L’opera di Richard Neutra, architetto che si trasferisce prima di altri nel Nuovo Mondo, dopo l’apprendistato da Adolf Loos; Frank Lloyd Wright che guarda con interesse ai lavori dei suoi colleghi, ma che comunque si attesta su posizioni autonome ed originali, difficilmente catalogabili; il New Deal e il blocco proveniente dal Bauhaus: Albers, Breuer e ovviamente Gropius, capace quest’ultimo di immergersi con naturalezza nel nuovo contesto entro il quale si trova ad operare; Mies van der Rohe al quale si riconosce una certa involuzione di linguaggio, ma anche la genialità nell’ideare nuove soluzioni subito assimilate dalla cultura americana.
Per Leonardo Benevolo il legame tra l’esperienza dell’architettura presente e quella passata era strettissimo e imprescindibile. Infatti ci ha detto che «ogni decisione operativa comporta un giudizio storico sugli avvenimenti precedenti, che giustificano l’operazione da compire oggi, e ogni giudizio storico, porta implicito un orientamento che si può far valere in campo pratico». Ovvero, la sintesi di un metodo ancora oggi valido.