«Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore». È l’incipit delle “Città invisibili” di Italo Calvino. Un poema d’amore, forse l’ultimo, nei confronti della città, intesa nel suo senso più puramente umanistico, cioè come quell’agglomerato nella cui formazione concorrono i concetti di urbs e civitas, dove il primo è la città in senso lato e il secondo è costituito dai cittadini. La prima edizione di quel libro è del 1972, dunque l’inizio di un decennio cruciale per le sorti dell’urbanistica e dell’architettura. Anni in cui autorevoli intellettuali come Bruno Zevi, Leonardo Benevolo, Manfredo Tafuri, Giulio Carlo Argan si interrogavano su quale sarebbe stato il futuro della città a fronte della crisi che aveva colpito il Movimento Moderno. Ma loro agivano da un punto di vista storico e fenomenologico, ancorché sociale. Calvino no, sebbene egli stesso avesse compreso l’avvicinarsi di un momento di rottura nei meccanismi che regolavano la vita urbana: «Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili», scrisse a chi gli domandava il perché di un’opera come quella.
Irene Kung per sua stessa ammissione ha pensato a Italo Calvino quando ha raccolto le sue fotografie da inserire nel suo volume “La città invisibile”. Prima di rifletterci sopra occorre spendere due parole su di lei. Irene Kung è nata in Svizzera nel 1958. Ha vissuto a Madrid e a New York prima di stabilirsi nella sua nuova patria di adozione, l’Italia. L’interesse per la fotografia arriva soltanto dopo la pittura, dove si specializza in maniera particolare negli “still life”, termine inglese che possiamo tradurre in italiano come “natura morta”: gli animali, i paesaggi, le nuvole, il mare. Un genere che le tornerà utile quando deciderà di abbracciare la fotografia. Infatti i soggetti su cui ha posato quasi subito il suo occhio sono inanimati. Le architetture prima di tutto, ma non ritratte come lo faceva Gabriele Basilico che invece le usava come strumento di indagine sociale. Irene Kung le estrapola dal loro contesto e le trasforma in un “unicum” fiabesco, quasi onirico. Nei suoi viaggi per il mondo ha immortalato i monumenti più rappresentativi delle metropoli che ha visitato. Il Duomo o la Torre Velasca a Milano, il Colosseo a Roma, l’Empire State Building a New York tanto per fare qualche esempio.
Queste immagini, dallo sfondo neutro il più delle volte scuro, trascendono il presente e si proiettano in un tempo sospeso che crea uno spazio del tutto nuovo. Ci dicono qual è la città presa in considerazione semplicemente perché l’architettura è riconoscibile, ma non ci spiegano quale potrà essere il suo futuro. Ci ammaliano e ci ipnotizzano nel loro silenzio che stride con il rumore caotico che le attraversa quotidianamente. Irene Kung è il nostro Marco Polo, noi siamo il suo Kublai Kan. La ascoltiamo molto più volentieri di ogni altro nostro «messo o esploratore». Magari non crediamo a tutto ciò che ci dice, ma su qualsiasi cosa dica ci ragioniamo su seriamente.
Di recente la fotografa ha abbandonato l’artificio umano ed è tornata a rivolgersi alla natura. Nella fattispecie agli alberi. “Trees” è il titolo della sua ultima pubblicazione. La tecnica non si discosta molto da quella con cui ha fissato le architetture. Cambia il modo di approccio: «Nel mio modo di lavorare è possibile riportare l’albero a quello che ho sentito – così ha raccontato –. Il mio lavoro consiste proprio in questo: tolgo ciò che non è essenziale per far vedere l’albero com’è, come lo sento. È intuizione, è irrazionale: il razionale ci può portare fuori strada, il sentimento no.» Si tengano bene a mente queste parole: togliere ciò che non è essenziale. Poi si vada a prendere la prima delle sei “Lezioni americane”, quella sulla leggerezza. Lì l’autore (che guarda caso è sempre Italo Calvino) spiega che la sua «operazione il più delle volte è stata una sottrazione di peso». Un cerchio che si chiude laddove si era aperto. Tutto torna nel mondo razionale, ma allo stesso tempo poetico, di Irene Kung.