Elliott Erwitt: quando l’impegno può essere anche creativo


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Elliott Erwitt, 22/05/2014, Foto Alessio Jacona

Elliott Erwitt, Foto Alessio Jacona 22/05/2014

C’è chi afferma che un artista debba essere fedele a sé stesso, chi invece sostiene che debba rinnovarsi di continuo al fine di non correre il rischio di cadere nel vortice del manierismo autoreferenziale. Difficile compilare una definizione esatta della parola “artista”, troppe sono le variabili che entrano in gioco: significato, significante, contesto e via dicendo. Un discorso che va avanti da secoli e che è ben lungi dall’essere esaurito. A maggior ragione questo vale per la fotografia. Senza entrare troppo nel merito, Gianni Berengo Gardin ad esempio detesta essere chiamato artista. Meglio testimone, nonostante le sue immagini spesso e volentieri posseggano un evidente valore estetico, condizione comunque necessaria per giudicare una fotografia. Dietro di essa si sviluppa un sistema linguistico bene analizzato da Roland Barthes ne “La camera chiara”, saggio che seppur un po’ datato (è del 1980) conserva un fascino ancora attuale non fosse altro per la disamina attenta e precisa che fa l’autore.

Elliott Erwitt sostiene che «le idee, sebbene ricoprano un ruolo meravigliosamente piacevole nella conversazione e nella seduzione, hanno poco a che fare con la fotografia. La fotografia è il momento, la sintesi di una situazione, l’ideale in cui tutto si amalgama. Un ideale inafferrabile».

Quanto da lui sostenuto è ampiamente dimostrato dalla mostra ospitata nel Forte di Bard, aperta al pubblico fino al 13 novembre. Il luogo, una fortezza edificata dai Savoia sulla rocca che domina l’omonimo borgo in Valle d’Aosta, da qualche anno è stato trasformato in sede espositiva. Nel 2014 ha avuto un sensibile balzo di notorietà, essendo stato scelto come location dal film “Avengers: Age of Ultron”, basato sulle gesta del team di supereroi della Marvel. Al di là di questo fatto, che ha dato al Forte visibilità a livello mondiale, occorre mettere in evidenza la qualità delle mostre. Per quanto riguarda la fotografia negli ultimi anni ricordiamo Sergio Larrain, Josef Koudelka, Sebastião Salgado e, appunto, Elliott Erwitt. Centoquaranta immagini circa, la maggior parte delle quali nell’amato bianco e nero (anche se nell’ultima parte non manca il colore), in un periodo cronologico che va dal 1948 al 2005. Nove le sezioni: Beaches, Cities, Abstractions, Museum Watching, Dogs, Between the Sexes, Regarding Women, Kids, Personalities, oltre a un contributo video nel quale Erwitt racconta la sua idea di fotografia e dove scopriamo le inattese passioni per i travestimenti e per il cinema.

Osservando i suoi scatti ci accorgiamo immediatamente dell’ironia che li pervade. È nella serie Dogs, quella dedicata ai cani che lo si percepisce meglio, ma anche in Museum Watching, in cui sono i visitatori dei musei e non le opere d’arte in essi custodite a offrire all’autore lo spunto per immortalare il soggetto (che non sa di essere ripreso, condizione fondamentale). Sono fotografie “divertenti” a una prima indagine, ma di un divertimento intelligente e non certo sguaiato, testimonianze di chi è in grado di scrutare la realtà senza prenderla troppo sul serio. Un uomo dallo spiccato senso dell’umorismo che tuttavia sa individuare il limite che separa l’impegno dalla faciloneria. È per questo motivo che nel 1953 Erwitt viene scelto per entrare alla Magnum Photos, la prestigiosa agenzia fondata da Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert, come fotografo associato, divenendone l’anno seguente membro effettivo. Tra i tanti reportage spicca quello della visita in URSS di Richard Nixon che in piena Guerra Fredda punta il dito sul petto di uno sbigottito e quasi assente Nikita Kruscev. Senza dimenticare lo struggente ritratto di Jacqueline Kennedy, velata e in lacrime ai funerali del marito.

In tutti i suoi lavori Erwitt è sempre partito da un presupposto, cioè che la fotografia quando accade lo fa senza sforzo. In pratica in questo processo la volontà o l’intenzione del fotografo passano in secondo piano, sebbene egli non neghi la loro necessità. Molto semplicemente non vuole dargli troppa rilevanza. Per tornare a Barthes, in Erwitt lo “studium” (l’aspetto razionale, il generale) e il “punctum” (l’aspetto emotivo, il particolare) si fondono in maniera perfetta, dando vita a immagini che restano fatalmente impresse nella coscienza di chi le osserva e che ottengono lo scopo che l’autore si era prefissato: far ridere la gente – lui stesso afferma essere il risultato più importante che si possa raggiungere – ma anche stimolare in essa introspezione e analisi di ciò che la circonda.

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