Jan Fabre: gli insetti, il corpo, l’arte


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Jan Fabre, Totem, 2005 ©FacemePLS

Jan Fabre, Totem, 2005 ©FacemePLS

Jan Fabre nacque nel 1958 in Anversa, in un quartiere popolare, da famiglia che all’epoca veniva vista come eccezione eretica; il padre Edmond comunista, la madre Helena Troubleyn cattolica, colta, di religiosità superstiziosa (teneva in casa delle forbici a forma di croce per tenere lontani gli spiriti maligni).

Lo zio Jaak, fratello del padre, fu fondatore del teatro giovanile fiammingo ed idolo di Jan all’epoca della sua adolescenza.

In questa famiglia, caratterizzata dall’amore di tutti nel reciproco rispetto e dalla totale assoluta noncuranza del denaro nonché dal principale interesse all’arte, Jan iniziò ed evolse il suo percorso artistico quasi in un primo tempo inconsapevolmente in sconfinata autentica libertà di espressione e basandosi esclusivamente sulle proprie sensazioni corporee.

Egli concentrò la propria attenzione sul proprio corpo letteralmente perforandolo e studiando quanto facevano gli uomini primitivi, sempre fuggendo anarchicamente dalle strutture sovrapposte delle “civiltà” successive ritenute infettanti e da aborrire per raggiungere la vera arte.

Nulla dette per scontato, indagò la natura ed i suoi misteri e proclamò la forza risolutiva dell’arte basandosi sul binomio dell’esistenza vita-morte e concludendolo in resurrezione, il tutto fuori del fuorviante fattore Tempo.

La sua “arte” non fu mai concettuale bensì fondata sui sensi e sulla natura.

Prima di lui in Belgio, circa 150 anni prima di Fabre, vi era stato un pittore, incisore, disegnatore, scrittore, simbolista, Felicien Rops nato a Namur anch’egli attratto dal legame vita-morte e dal problema della resurrezione che lo accomuna a Fabre con soluzioni, data l’epoca, diverse ma molto vicine a quelle più estremiste e molteplici di Fabre.

Quest’ultimo cominciò a disegnare con la più semplice ed economica delle penne la bic-blu dai colori ipnotici.

Continuò il suo doloroso percorso sempre fuggitivo dal mondo e dalle sue sovrastrutture dedicandosi alla ricerca di ciò che c’è sotto l’involucro esterno rivolgendosi per questo al proprio corpo.

Dette quindi alla performance un significato nuovo ed originale e ne fece la sua autentica palestra.

Egli concepì la performance dal suo significato linguistico-letterario inteso letteralmente come perforazione del proprio corpo, unico mezzo per raggiungere le origini.

Tale concezione ricevette impulso allorquando nel 1976, a 18 anni, il suo immaginario venne colpito dalle ferite di Gesù Crocifisso dipinte da antichi maestri fiamminghi per i quali era stata organizzata una mostra a Bruges.

Tagliuzza il proprio corpo per farne uscire il sangue e con esso scrivere e disegnare convinto che solo così può raggiungere il livello della vera arte.

Da questa concezione della performance tanto più autentica quanto più si ritorna al primordiale Fabre per preservare l’involucro corporeo copre i suoi personaggi di corazze medioevali vere e proprie, che essendo molto costose fabbrica da sé.

Crede fermamente, tanto da essere aggredito e picchiato selvaggiamente dal “pubblico che non lo capisce e non lo apprezza. Nel binomio ripetuto nei secoli di vita-morte cui Egli aggiunge la resurrezione, valore che nasce dalla fusione dei due termini del binomio.

Il vero artista egli sostiene non può che offrire la morte e fare così rinascere un nuovo corpo anticipando così Pasolini il quale sintetizzò l’idea dell’artista belga con queste parole: “esprimersi e morire o restare inespressi e immortali”.

Nel 1978 costruisce nel giardino dei genitori un tenda dalla forma a doppio naso, simbolo del più intuitivo dei sensi, e si trasferisce in essa servendogli come laboratorio. Dormitorio e luogo di ricerca.

Uno dei suoi esperimenti, da tutti ritenuti folli, fu ad esempio quello di esercitare il senso dell’olfatto e con tale esercizio approfondire ed arricchirsi, annusando in ginocchio chilometri di rotaie del treno percosse metro per metro dalle ruote dei treni anch’esse di ferro e percependo gli odori variabili emesse dalle rotaie. Questo esercizio lo ridusse ovviamente allo sfinimento, alla debilitazione ma anche alla soddisfazione.

Un impulso molto intenso nei suoi convincimenti lo ricevette allorquando scoprì che gli insetti tutti (mosche, ragni, farfalle, libellule, scarabei) malgrado che le cellule del loro cervello fossero infinitamente minori rispetto alle cellule del cervello umano avevano un corpo molto semplice nel quale era più facilmente raggiungibile il primordiale.

Concentrò la sua attenzione sullo scarabeo, le cui cellule del cervello erano in rapporto con le cellule della razza umana da 10.000 a 10 milioni e che era nato ben 150 milioni di anni prima dell’uomo nel Cretaceo superiore.

Questo insetto diventa per Fabre il simbolo dell’equilibrio dell’universo e per la sua forza primordiale il primo computer capace di autorinnovarsi.

I convincimenti di Fabre diventano certezze allorquando lo zio Jaak gli dice che in famiglia vi era stato un grande entomologo di origine francese e di nome Jean Henrì Fabre.

Jan legge tutti i libri scritti sugli insetti da questo grande entomologo e va oltre creando delle sculture ricoperte dalle scaglie con cui lo scarabeo copriva il proprio involucro a difesa di quanto conservava di spirituale al disotto.

Lo scarabeo diventa la sorgente delle sue idee sul corpo umano e lo porta a pensare che l’insetto

contiene ben nascosto l’elemento fondante primigenio risalente a milioni e milioni di anni prima che apparisse l’uomo sulla terra.

Lo scarabeo diventa per lui l’artefice della resurrezione.

Sempre per difendere l’elemento spirituale che c’è anche nell’uomo sia pure non puro come nell’insetto copre i personaggi da lui creati con corazze medioevali, che come abbiamo sopra scritto essendo molto costose lo costringono a farsele da solo con materiale più economico.

Ma è sopratutto con il sangue del proprio corpo che Egli disegna i suoi pensieri, il suo fu un percorso dolorosissimo, doloroso fisicamente perché nessuno lo capiva e quindi lo picchiavano spesso.

Allo stesso scopo fa anche dei monumenti funebri in marmo di Carrara secondo la tradizione classica ma discostandosi da essa e così raggiungendo risultati simili a quelli ottenuti nel settecento da Giuseppe Sanmartino mediante il Cristo velato visibile nella Cappella Sansevero di Napoli.

Alla propria scultura Fabre aggiunse altre piccole sculture a forma di cervello origine della conoscenza e della fraternità tra gli uomini.

Rivisita la Pietà di Michelangelo mettendo un teschio al posto del viso della Vergine e rappresentando se stesso con in mano un cervello al posto del Cristo morto a significare un dialogo tra arte e scienza.

Ritorna a Carrara nel 2015 e quivi realizza 24 sculture in marmo bianco raffiguranti cervelli, croci ed altri simboli sacri.

Tutte metafore del mondo impenetrabile che però si può rinnovare dopo la morte, sorgente di resurrezione e da preservare ad ogni costo.

Tra l’altro scenografa uno spettacolo teatrale che dedica a sua madre sempre presente nei suoi pensieri e dalla quale trasse spesso ispirazione.

Dopo il 1885 descrisse il feroce genocidio compiuto in Congo dal Belgio coloniale, regnante Leopoldo II.

L’occasione gli fu fornita dalla Regina Paola che gli commissionò di arredare a suo piacimento la sala di Palazzo Reale.

In tre mesi e con un grande numero di collaboratori (circa 30) incolla una per una le ali di scarabei

pari ad un milione e quattrocentomila, numero uguale agli anni di vita dello scarabeo primigenio, sul soffitto e su una parete della sala principale del palazzo reale. Crea in questo modo una atmosfera surreale ed inquietante.

Dal 2011 al 2013, sentendosi come belga debitore verso il Congo, la cui popolazione era stata torturata e massacrata durante il periodo coloniale belga, realizza dei monumenti mosaico ricoperti di corazze di scarabeo sottratte dalla commissione affidatagli dalla Regina Paola.

Non dimentica l’importanza nella storia del paese africano dell’originale lavoro svolto colà da quel geniale precedente pittore Hieronymus Bosch e lo cita ripetutamente ispirandosi ai suoi personaggi.

In ricordo della madre costruisce il Troubleyn Laboratorium nel quartiere di Anversa dove lo aveva dato alla luce ed il laboratorio diventa un principale centro fiammingo di cultura.

Si interessa anche di teatro portando in esso le proprie radicate convinzioni: ritornare alle origini, ai riti dionisiaci mediante i quali avviene negli attori e negli spettatori un processo di purificazione e di metamorfosi che porta all’assassinio ed alla morte dello spettacolo ed al trasferimento del suo cadavere a nuova vita nel profondo dello spirito degli attori e degli spettatori.

È un sogno, un’utopia ciò in cui crede Fabre che si stupisce ammirato davanti a tutto quanto esiste.

Egli sa che senza il sogno l’uomo è vuoto di presente e di futuro.

Come ha scritto Franco Paris nella breve introduzione del primo volume del Giornale notturno (diario di Fabre dal 1978 al 1984) edito nell’Ottobre 2013 dalla Litografia Celebrano di Pozzuoli, oggi quasi introvabile e cui dovrebbe fare seguito, quanto prima si spera, un secondo volume: “il motivo fabriano … ( è )…. il guerriero-performer che misurandosi con il proprio corpo cerca incessantemente la bellezza e la verità attraverso la ripetizione, il confronto-scontro, la metamorfosi, l’ambiguità, sospeso tra sublimità e meschinità”. Ed ancora: “il tentativo di conciliare discipline apparentemente diverse tra loro come la biologia, l’antropologia e le arti sceniche e teatrali al fine di compiacere proprio nelle sue espressioni più creative il cervello umano (Fabre per indicare questo obbiettivo usa il termine consilience)”. “L’affermazione di una curiosità senza fine e di una inesauribile energia … ruotano intorno al ruolo del corpo, un corpo che è nel contempo materiale e spirituale, culturale e viscerale, sede del pensiero ma anche di sangue, urina, sperma, nucleo dell’eterno flusso di “nascita-vita-morte-rinascita”.

Nel suo originale Giornale notturno direttamente Fabre così scriveva: “ Sono un’ombra solitaria in un giardino misterioso. La nuova rivoluzione avrà luogo non nel mondo esterno ma nella nostra carne. Sono un cercatore d’arte e l’arte è più difficile da trovare dell’oro … Per tutta la vita voglio conservare lo spirito di un bambino per vivere le meraviglie ed il trasporto della bellezza. L’arte post-moderna testimonia di una tolleranza vile perché difende e propugna il rispetto per ogni sorta di opinioni e di punti di vista, un alibi per non dover prendere posizione con chiarezza”.

Ed ancora nello stesso Giornale notturno Fabre esprimeva il suo pensiero così sintetizzandolo: “Voglio sottoporre a torture il mio corpo. Far soffrire il mio corpo. Far morire il mio corpo. Far resuscitare il mio corpo in modo di potere staccare mediante questo processo di morte e rinascita il mio corpo dalla realtà per donarlo all’arte”.

Fabre fu chiamato in molti istituti nell’intero mondo a presentare le proprie ricerche e le proprie convinzioni basate essenzialmente sulle sensazioni corporee e sulla struttura semplice degli insetti.

In Italia egli partecipò alla Biennale di Venezia più volte (1984, 2007, 2009, 2011), in mostra a Roma (2013, 2014), al Museo Pecci di Prato (1994), ad Ameglia, provincia di La Spezia (2005), a Firenze mediante uno spettacolare bronzo installato in piazza della Signoria e mediante una grande mostra allestita in Forte Belvedere (2016).

In Stigmata, un grande volume anch’esso difficile da trovare, che illustra la storia dell’artista belga

dal 1976 al 2013 organizzata in mostra dal Maxxi di Roma nel 2013 a cura di Germano Celant ed edito dalla Skira, si possono ammirare le stupende immagini di un film-documentario di Fabre che presenta un colloquio tra lui e Giacomo Rizzolati titolato con un significativo interrogativo: “Do we feel wwith our brain and think withour heart???”

Con questa domanda chiudiamo sperando di potere riprendere il nostro discorso quanto prima.

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